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Perché ci piace Vine

27 Gennaio 2013 3 min lettura

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La scommessa di Vinesecondo Vine, è duplice. La prima è che agli utenti interessi sempre più l'«abbreviazione», «la forma ridotta di qualcosa di più vasto». La seconda è che «i limiti ispirino la creatività». Sono i due comandamenti di Twitter, che non a caso ha fatto presto sua la app di video-sharing, ridotti all'osso. Perché, come ha notato Rob Horning, il «vocabolario formale» di Vine consiste di una sola parola: sollevare il dito, operare una frattura - un taglio - tra una porzione di video e l'altra. Durata massima sei secondi: niente link (magari accorciati), niente hashtag, niente tag (a meno che, come per Twitter, non ci pensino in qualche modo gli utenti). Un vocabolario «impoverito», dunque, che massimizza la sfida per la creatività.

Tanto più che se da un lato porre dei vincoli stimola a superarli, dall'altro «allena l'occhio a vedere il mondo come differentemente documentabile», scrive Nathan Jurgenson. E «ci chiede» di osservarlo come se fosse già composto di frammenti che, insieme, restituiscono un intero di sei secondi. Risultato? In ultima analisi, nuovi cliché (il primo, secondo Jurgenson, sono i pasti consumati in stop-motion). E dunque nuovi limiti, questa volta risultato - e non premessa - della creatività esercitata entro i vincoli. Il materiale per l'ennesima critica basata sul lock in non sembra mancare.

Nel frattempo, nonostante qualche problema nel lancio, gli utenti paiono gradire. E i commentatori pure. Se il seguito dovesse strutturarsi, sarebbe interessante interrogarsi sulle ragioni del successo di una app che non fa sostanzialmente niente di nuovo, e il cui principale apporto contenutistico finora - a parte i soliti gattini e neonati - è stato dare occasione al politico di turno di spezzettarsi per primo in segmenti di sei secondi, e fare qualche titolo di giornale.

C'entra la coolness di qualunque cosa riguardi Twitter in questo periodo? Certo. Così come c'entra la brevità (Jurgenson la chiama «efficienza»), ideale per la nostra sempre più lacerata attenzione. E, non ultimo, il fatto che sia tutto estremamente divertente e immediatamente gratificante (però di quella gratificazione che discende dall'idea che condividere sia un bene sempre e comunque). Eppure credo Business Insider colga un aspetto fondamentale della vicenda quando scrive che «Vine è la cosa più simile che abbia mai visto a Essere John Malkovich nella vita reale».

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Come a dire: quello che realmente vogliamo, il motore dei contatti e della diffusione, è non tanto o non solo la sfida per la creatività o il semplice entusiasmo per una modalità espressiva percepita come totalmente nuova, ma anche e soprattutto la possibilità di aprire una porta che conduca nelle vite altrui. Anche nei loro momenti più insignificanti, e anche se quella porta non resta aperta che per pochi secondi. Attimi, tuttavia, in cui quelle vite sono in movimento, tangibili molto più che nella infinita sequenza di immagini su Facebook (che infatti non ha digerito affatto Vine). Al punto di dare la sensazione di condividere una stessa esperienza in presa diretta. Perché ci piace guardare e farci guardare. E a Vine lo sanno benissimo, dato che non hanno previsto un'opzione per rendere privati, o condivisibili solo ad alcuni, i video girati (anche se CNET spiega che esiste una scappatoia).

A vederli uno dopo l'altro, nella sequenza casuale e ininterrotta di vinepeek.com («Mette l'umanità in corteo», ha commentato sempre CNET), viene da pensare che la reale misura del successo di Vine sarà la sua capacità di soddisfare questa richiesta estrema (perché immediata, fugace) di empatia e voyeurismo innocuo (di quello non innocuo ne abbiamo tonnellate), che sembra essere il prossimo passo nella storia naturale della condivisione e allo stesso tempo una sorta di ChatRoulette socialmente accettabile dove si guarda in tempo reale e si è guardati in differita.

E viene da pensare che, con Vine, è come se fossero le nostre stesse vite - e non solo i video-frammenti prodotti, o «il mondo» - a diventare spezzettabili, concepibili come somme di istanti pronte a diventare memi o gif animate. Proprio come i concetti hanno iniziato a strutturarsi intorno a 140 caratteri, potremmo giungere a ridefinire i nostri gesti più banali in modo che siano adatti a una conversione immediata in pillole isteriche di pochi secondi. Anche da questo punto di vista, il futuro di Vine potrebbe rappresentare un interessante indice di misurazione - l'ennesimo - di ciò che resta della differenza tra pubblico e privato.

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935 Comments
  1. [...] montare e diffondere su twitter dei minivideo da 6 secondi, che girano in loop all’infinito (qui un post di Fabio Chiusi [...]

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