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Ma gli OGM fanno davvero paura?

10 Marzo 2016 12 min lettura

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Ma gli OGM fanno davvero paura?

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di Lou Del Bello

"Chi ha paura degli Ogm?" È questo il titolo della puntata di Presa Diretta dello scorso 28 febbraio dedicata alla coltivazione degli Organismi Geneticamente Modificati. Perché, si sono chiesti gli autori del programma, il dibattito pubblico si concentra sull’ipotesi se gli Ogm facciano male o meno alla salute? La trasmissione ha cercato di rispondere a questa domanda e di capire cosa siano gli Organismi Modificati Geneticamente dando voce a pareri di esperti.

Una puntata che ha suscitato la reazione dell’Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica (AIAB), secondo la quale Presa Diretta sarebbe stata a “totale supporto degli OGM” e senza contraddittorio.

Posizione condivisa anche dal Movimento 5 Stelle, che ha chiesto al nuovo direttore di Rai 3, Daria Bignardi, di riequilibrare la puntata di Presa Diretta, definita «una carrellata pubblicitaria a favore del transgenico», e di pensare a uno spazio in cui dare voce a posizioni contrarie agli OGM.

Alle critiche alla trasmissione, hanno risposto giornalistici scientifici ed esperti. Dario Bressanini, chimico e autore del libro “Contro Natura. Dagli Ogm al 'bio', falsi allarmi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola”, ha ribattuto nel merito su Twitter.


Per questi motivi, abbiamo voluto approfondire la questione.

Facciamo un passo indietro

Quelli che oggi chiamiamo "organismi geneticamente modificati" (OGM), e di cui il pubblico e la politica cercano da anni di navigare i misteri e identificare i potenziali rischi, ci accompagnano quietamente da millenni.
Come siamo arrivati a dipingere uno scenario distopico in cui le piante geneticamente modificate sono il frutto di una scienza spaventosa che vuole sostituirsi a Dio?

Questa mappa illustra le varie regioni del pianeta in cui possiamo rintracciare le origini dell’agricoltura.

I primi centri di domesticazione delle piante. via Zanichelli
I primi centri di domesticazione delle piante. via Zanichelli

Non siamo una specie superiore ad altre dal punto di vista fisico. Ma abbiamo un vantaggio: la resilienza. Sappiamo sopravvivere adattandoci a condizioni sfavorevoli o, come in questo caso, adattando (trasformando) un ambiente inospitale alle nostre necessità di sopravvivenza.
In questo periodo, circa ottomila anni prima di Cristo, l’uomo che si era finora alimentato di frutti spontanei e cacciagione scopre come padroneggiare la crescita di piante nutrienti. Una delle prime rivoluzioni che ha portato il genere umano a dominare sugli altri esseri viventi comincia proprio con la ‘domesticazione’ delle piante.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive gli organismi geneticamente modificati (OGM) come “un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l'accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale”

La Commissione Europea, che dal 2001, dopo una estesa serie di studi, ammette la circolazione di OGM con la legge pilastro Direttiva 2001/18/CE sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati, usa la stessa definizione adottata dall'OMS. Si tratta però di una definizione legale che può essere soggetta a diverse interpretazioni. Possiamo definire le piante “domesticate” artificialmente come OGM? O con questa descrizione l’OMS e la Ue identificano solo le modifiche che avvengono in laboratorio?

Come scrivono Dario Bressanini e Beatrice Mautino nel libro "Contro Natura" gli organismi vegetali sono stati definiti in base al modo in cui sono stati ottenuti e non alle loro caratteristiche. Infatti la direttiva europea fa rientrare nella categoria di OGM piante prodotte con alcune tecniche ma non con altre. Per esempio le varietà ottenute per mutazioni chimica o attraverso l'uso di radiazioni (come il grano Creso) non sono considerate dal punto di vista legale OGM.

Sin dall’antichità, inoltre, si legge ancora nella direttiva, piante e animali con le caratteristiche più desiderabili venivano scelte per produrre le seguenti generazioni di alimenti o mangimi. Queste variazioni, dice l’Europa, avvenivano naturalmente e l’uomo ne traeva vantaggio attraverso l’ibridazione.
Ad oggi, molte delle piante che mettiamo quotidianamente nel piatto sono il risultato di questo scrupoloso lavoro, come le carote, le melanzane, il mais, l'anguria e le banane.

Se nei millenni passati la sfida per l’uomo era migliorare il gusto e la versatilità dei propri alimenti, il mondo oggi affronta una serie di ostacoli infinitamente superiori, come la sovrappopolazione e una crescente disuguaglianza globale. Questi problemi interagiscono con fattori ambientali come il cambiamento climatico, che gli scienziati definiscono ‘moltiplicatore’. Un clima più aspro non necessariamente crea problemi di per sé, ma aggrava situazioni di povertà, sviluppo urbano incontrollato, mancanza di risorse.

Una delle ragioni per cui la scienza si è quindi messa al lavoro modificando il DNA di alcune specie per renderle più resistenti alle malattie o più nutrienti è proprio il bisogno di rispondere a nuove sfide per la sopravvivenza del genere umano.

Ma questa volta l’impresa presenta una serie di ostacoli di partenza. Gli OGM sono sicuri per la salute umana? Sono veramente efficaci per migliorare i raccolti e nutrire il mondo? Ci aiuteranno contro i cambiamenti climatici?
Associazioni come Greenpeace rispondono con un secco “no”.

Cominciamo dall’Italia

Dal 2001, per decreto dell’ex ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio (governo Amato), l’Italia non può coltivare prodotti geneticamente modificati, né può condurre ricerche al di fuori del laboratorio. Quest'ultimo punto si è rivelato particolarmente problematico per i biotecnologi italiani, in quanto la sperimentazione in campo aperto è parte integrante del processo di ricerca.

Una delle ragioni principali del bando è il rischio di contaminazione: i pollini da piante OGM potrebbero fecondare altre colture vicine. La realtà è più complessa e studi dimostrano che la coesistenza di colture GM e GM free è possibile.

Il provvedimento del 2001 rappresenta una pietra miliare nella guerra agli OGM in Italia, che ha portato alla distruzione di campi di sperimentazione tra i più longevi al mondo e giudicati di alto valore scientifico a livello internazionale. Il più famoso esempio è forse il campo di ciliegi, olivi e alberi di kiwi transgenici nato nel 1982, in seno all’Università della Tuscia, sotto la guida del biotecnologo Eddo Rugini. L’obiettivo dell’esperimento era sviluppare nel tempo varietà resistenti a certi comuni patogeni e alberi più piccoli che facilitassero la raccolta.

La principale ragione per lo sradicamento delle piante, che avvenne nel 2012 vanificando 20 anni di ricerca finanziata con soldi pubblici, fu il rischio che i ciliegi in fiore potessero contaminare le colture circostanti. Ma mentre i pollini dei kiwi venivano regolarmente rimossi e distrutti, i fiori dei ciliegi non erano nemmeno transgenici, quindi del tutto innocui.

La battaglia con l’Europa che invece permette la produzione e circolazione di OGM, e incoraggia gli stati membri ad adottare un simile approccio, prosegue ormai da più di vent’anni.
L’ultimo capitolo della saga vede l’attuale ministro delle Politiche Agricole, alimentari e forestali Maurizio Martina richiedere la sospensione della coltivazione di tutti gli organismi geneticamente modificati permessi in Europa sul territorio nazionale.

La richiesta che risale all’ottobre del 2015 è avvenuta a seguito della direttiva Europea che consente agli stati membri di decidere indipendentemente su questo aspetto.
Un segno di apertura da parte dell’Europa che l’Italia ha colto prontamente, ma che non cessa di fomentare polemiche.
In un intervento su L’Espresso, il ministro Martina spiega le sue motivazioni sottolineando che:

I modelli agricoli estensivi che da anni consentono la coltivazione di Ogm, hanno dimostrato di essere troppo dipendenti da pochi soggetti che detengono le leve fondamentali di questa partita. I livelli di condizionamento, ambientali e non solo, sono oggettivamente assai rilevanti, in particolare dove l’agricoltura è per lo più organizzata in piccole imprese familiari.

Martina suggerisce che affidarsi a colture OGM potrebbe favorire una situazione di monopolio nell’industria agricola, poiché i brevetti di queste “specie migliorate” appartengono ad enti privati. I piccoli produttori italiani, che costituiscono parte dell’eccellenza nazionale e proteggono la biodiversità del nostro patrimonio agricolo, sarebbero messi fuori gioco da una concorrenza sleale.

Il ministro Martina non chiude completamente le porte alla manipolazione genetica. Piuttosto, suggerisce nuovi approcci che ritiene più sostenibili ed eticamente accettabili: la cosiddetta cisgenesi è uno di questi. A differenza della transgenesi, che fa uso di geni estranei alla specie manipolata, la cisgenesi utilizza piante donatrici dello stesso genere o specie, con risultati simili a quelli ottenuti per via riproduttiva sessuale.

Rimane il fatto che l’Italia continua a dipendere dagli OGM, in maniera meno diretta ma assolutamente significativa. Nonostante il bando della produzione e ricerca in campo aperto, continuiamo ad importare OGM per alimentare i nostri animali, per esempio.
L’Associazione Nazionale tra i Produttori di Alimenti Zootecnici (ASSALZOO) conferma che dei 14 milioni di tonnellate di mangimi composti ogni anno, destinati a diverse specie animali allevati, l’87% sono OGM.

Chi ha paura del mais BT?

Dopo grano e riso, il mais è la terza coltivazione al mondo per quantità. È usato principalmente come base per mangimi animali, ma anche per la produzione di farina di mais, amido e prodotti alcolici.
La variante di mais BT prende il nome da una modifica genetica che lo porta a produrre una proteina tipica del batterio Bacillus thuringiensis. Questa proteina, innocua per l’uomo, è velenosa per alcuni insetti dannosi, tra cui la piralide del mais, che a livello mondiale causa circa un miliardo di dollari di danni ogni anno.

Inserendo una proteina insetticida nel mais, gli scienziati hanno creato una specie naturalmente resistente ai parassiti, riducendo la quantità di insetticidi esterni che gli agricoltori devono impiegare per proteggere le loro piante.
Poiché questa protezione naturale garantisce una maggiore certezza di un raccolto di successo, è stata definita una specie di ‘assicurazione’ per agricoltori, che pagano di più per i semi in cambio di migliori possibilità di profitto.

Il mais MON810, la cui coltivazione e circolazione sono permesse in Europa, è un mais BT prodotto da Monsanto che è da anni al centro di aspre polemiche in Italia. Nonostante la sua produzione sia bandita nel nostro paese, i produttori di mangimi lo importano in grandi quantità perché la produzione di mais italiano non soddisfa la domanda.

In Europa, la maggior parte del mais BT è prodotta in Spagna, che come l’italia è gravemente affetta dalla piralide.
Tra le critiche principali all’adozione di questa specie di mais transgenico c’è il possibile sviluppo della resistenza alla proteina BT da parte degli insetti che dovrebbero esserne allontanati. Se un parassita viene esposto ad una sostanza tossica per un periodo prolungato, potrebbe evolversi in modo da diventare resistente alla specifica tossina. Questo effetto non è stato ancora osservato in campo aperto, ma ci sono evidenze di laboratorio che richiedono cautela su questo fronte. Tuttavia è utile specificare che il fenomeno delle resistenze riguarda anche le colture tradizionali non geneticamente modificate. Inoltre esistono alcune strategie che si possono applicare per contenere l'insorgenza di resistenze.

Altre domande critiche riguardano la possibilità che la specie transgenica si diffonda in modo incontrollato con effetti ancora non chiari su specie selvatiche sia animali che vegetali. Per questo motivo i ricercatori devono sottoporre ogni nuova formula transgenica ad un rigoroso processo di valutazione dei rischi.

Il caso Séralini

Un caso che in Italia fa ancora discutere, particolarmente sui social media, è quello del famigerato studio Séralini, che nel 2012 avrebbe provato come il mais GM causi malattie mortali nei ratti.
Mentre fuori dall’Italia questo esperimento è da anni archiviato come esempio di cattiva scienza, anche perché una miriade di altri studi più rigorosi hanno ottenuto risultati opposti, nel nostro paese viene ancora sfoderato come prova della dannosità del mais GM.

Il ricercatore francese alimentò un gruppo di ratti con una variante di mais transgenico prodotta da Monsanto, e un secondo gruppo di controllo con un mangime OGM free, osservando che il primo gruppo sviluppava tumori mammari ad una velocità allarmante.
Rimangono famose le foto di ratti bianchi deformati da tumori giganteschi che illustrano lo studio.

La pubblicazione scatenò una tempesta di polemiche che portò l’editore a ritirare il paper, giudicato non rigoroso principalmente per la dimensione del campione esaminato. Mentre le linee guida scientifiche per questo tipo di ricerca prevedono un campione di almeno 65 ratti, Séralini ne utilizzò solo 20.
Scelse inoltre una specie di ratti particolarmente predisposti ai tumori, il che rese difficile distinguere i potenziali effetti del mais GM dalla normale incidenza della malattia.

Tra i critici più taglienti anche Tom Sanders, direttore del dipartimento di scienze nutrizionali del Kings College London, nel Regno Unito, che osservò come il team di ricercatori non avesse pubblicato dati su quanto cibo era stato somministrato ai ratti, o sui loro ritmi di crescita. «I metodi statistici usati sono non convenzionali – commentò – sembra che gli autori si siano imbarcati in una gita di pesca statistica [a statistical fishing trip]».

Lo studio fu in seguito ripubblicato, in quanto giudicato privo di intenzioni fraudolente, ma i critici rimangono tutt’oggi scettici.

Il futuro della dieta globale

Negli ultimi cinquant’anni, l’aumento della popolazione mondiale ha rappresentato una delle più grandi sfide per il genere umano. Produrre cibo a sufficienza per sostenere questa crescita è stato l’obiettivo della ‘green revolution’, che ha portato alla nascita dell’agricoltura industriale come la intendiamo oggi. Solo qualche anno più tardi si è scoperto come questo approccio rendesse i suoli progressivamente infertili, aumentando la dipendenza da costosi e inquinanti fertilizzanti chimici.

Da trent’anni a questa parte, il cambiamento climatico si è aggiunto al problema, rendendo inospitali larghe aree che un tempo erano coltivabili, e scombinando nell’arco di un secolo le condizioni climatiche a cui le nostre più antiche coltivazioni si sono adattate nel corso dei millenni.
Le nostre piante non hanno la capacità di adattarsi naturalmente così in fretta, e i raccolti che sostengono la popolazione rurale del mondo stanno diventando più scarsi e meno nutrienti.

Gli attivisti anti OGM sostengono che modificare il genoma delle piante non servirà a sfamare il mondo. Se il modello industriale non ha funzionato fino ad oggi, perseverare con lo stesso approccio non migliorerà la situazione. Questa tesi ha due problemi.

Il primo è che il modello industriale ha in effetti aiutato a ridurre la fame, nonostante i suoi impatti ambientali si siano presto rivelati insostenibili. Prendiamo il rapporto della FAO The state of food insecurity in the World 2015, che esamina la sicurezza alimentare a livello globale.
Lo studio conferma che al momento le persone denutrite a livello globale sono 795 milioni, 167 milioni in meno di dieci anni fa, e 216 milioni in meno del 1990-92 (è utile specificare che i trend regionali evolvono a ritmi diversi e a volte incostanti). Un bel progresso, specialmente considerato che la popolazione mondiale continua a crescere ad un ritmo senza precedenti.

 

Il secondo problema è che le tecnologie OGM non si applicano esclusivamente alla produzione industriale, ma come i vari esperimenti italiani hanno provato, anche le specie locali possono essere modificate geneticamente per adattarsi a diverse condizioni ambientali o cambiamenti nella domanda.

Da "sfamare" a "nutrire"

Ormai da tempo la comunità internazionale si è resa conto che sfamare il mondo non è solo una questione di calorie, ma anche di nutrizione.
Specie geneticamente migliorate come il ‘golden rice’, arricchito con vitamina A, hanno fatto potrebbero fare la differenza per milioni di agricoltori di sussistenza i cui bambini continuano a morire a causa di questa deficienza.

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Oggi più che mai salvare i raccolti e proteggerne la qualità richiede l’aiuto della scienza.
E su questo punto, gli oppositori degli OGM hanno ragione: la modificazione genetica non è l’unica risorsa su cui puntare.
Nelle regioni più vulnerabili al cambiamento climatico, per esempio, tecniche di ibridazione naturale hanno prodotto ‘miracoli’ come il ‘super bean’, in grado di resistere ad alte temperature. Con una tecnica di ibridazione molecolare si è ottenuto lo ‘scuba rice’ che può sopravvivere fino a due settimane sott’acqua, una risorsa preziosa per i coltivatori che oggi affrontano inondazioni più frequenti e distruttive a causa del cambiamento climatico.

Come all’alba della domesticazione agricola, l’uomo seleziona le parti migliori di ciò che la natura offre per risolvere i suoi problemi. Ancora una volta, la resilienza che contraddistingue la nostra specie potrebbe rivelarsi chiave per la nostra sopravvivenza di fronte ai disastri ambientali causati dal cambiamento climatico.
In quale misura gli organismi geneticamente modificati debbano far parte della nostra risposta a queste nuove sfide, rimane una questione aperta.

Di certo la scienza e molti organismi internazionali tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Commissione Europea o la fondazione Bill e Melinda Gates vedono questi metodi come alleati troppo importanti per essere trascurati, sia dai paesi industrializzati che da quelli in via di sviluppo.

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