Migranti: contro l’odio diffondiamo racconti di solidarietà e accoglienza
9 min letturaSiamo dentro una crisi violentissima. Il clima prevalentemente è di rabbia, stanchezza, paura e intolleranza. Giorni fa scriveva Mario Calabresi su La Stampa:
Questi sono i problemi della nostra epoca, migrazioni dovute a guerre, estremismo, miseria, fame e cambiamenti climatici. Non possiamo pensare di arrenderci o soccombere ma nemmeno di nascondere il problema o scaricarlo sul vicino, bisogna avere il coraggio di essere adulti, chiamare tutti alle responsabilità e chiamare le cose con il loro nome. Costruire percorsi virtuosi (di accoglienza, studio, rispetto delle regole per chi ha i requisiti) e insieme meccanismi di rimpatrio e di aiuto ai Paesi da cui partono, ma evitare di voltare la testa dall’altra parte regalando migliaia di disperati al lavoro nero e alla criminalità organizzata.
Ora più che mai la responsabilità di chi fa informazione è enorme.
Allora io voglio chiedere a uno dei principali quotidiani del nostro paese a che serve usare i social per diffondere video come questi? Non aggiungono niente alla comprensione del mondo in cui vivo. Non mi aiutano come cittadino ad avere strumenti per capire e decidere. A cosa serve pubblicare questo video senza nemmeno la minima moderazione? Li ho letti tutti i commenti e credo che la reazione degli utenti sia ampiamente prevedibile (la dinamica è ben nota). Se si decide di non moderare, almeno si potrebbe evitare di postare roba simile, sapendo bene cosa si va a scatenare. A che serve postare un video di una rissa fra immigrati per strada e lasciare le persone a scannarsi nei commenti? Quanto può essere spaventosamente cinica questa strategia del click? Credetemi non servirà nemmeno a farvi sopravvivere. I social per testate come le vostre sono la grande occasione per creare senso dove c'è rumore, per costruire e rafforzare comunità, per coinvolgere i cittadini, rendendoli sempre più attivi e partecipi. Usati e vissuti in questo modo e su temi così delicati distruggono, lacerano. No, non esagero. Perché questa tendenza ormai a infiammare, aizzare, eccitare più che aiutare e stimolare le persone al ragionamento e al confronto è ormai quotidiana, sistematica (lo so non siete i soli, la TV non è da meno così come anche altre testate tradizionali e non). Mi piacerebbe avere un confronto pubblico su questo. Abbiamo bisogno di una informazione responsabile, etica, che senta il peso di quello che immette nell'ecosistema. Su temi come l'immigrazione ci giochiamo tutto, il nostro stare insieme, il nostro futuro come società. Voi che ruolo avete deciso di giocare? Perché il vostro essere nei social incide enormemente sulla partita.
Questo è un post che ho pubblicato sulla mia bacheca due giorni fa. Qui il link se avete voglia e interesse di leggere la discussione e i commenti.
Ieri il direttore del Corriere della Sera mi ha poi risposto su Twitter.
@_arianna siamo consci della nostra responsabilità, anche sui social: siamo disposti a confrontarci e a parlarne volentieri
— Luciano Fontana (@lucfontana) 16 Giugno 2015
Non so se cambierà qualcosa nella gestione dei social su un tema così delicato come l'immigrazione da parte di chi fa informazione. E soprattutto da parte di "grandi" testate. Quello che per me è sicuro è che in un contesto simile siamo tutti responsabili. Ognuno di noi, nei proprio spazi social e digitali, fa informazione. E quindi partiamo da noi: abbiamo il dovere di fare qualcosa. Di impegnarci per quanto possibile a diffondere anticorpi contro questo veleno fatto di mancanza di empatia verso la miseria e la tragedia di altri esseri umani e di razzismo esibito, ostentato in maniera trionfante e spavalda. Sono di ieri le immagini terribili degli sgomberi di Ventimiglia, una delle quali apre questo post. Sulla pagina fan di Valigia Blu abbiamo postato le parole dell'ex Ministro belga, Di Rupo, figlio di una famiglia abruzzese in fuga dalla miseria.
«Vengo da una famiglia di immigrati italiani che, al momento di arrivare in Belgio, non sapevano praticamente nulla del loro nuovo paese. Non erano per questo terroristi. Erano persone che fuggivano dalla miseria. Sono diventato il primo ministro del paese che ha sostenuto la mia famiglia. Questa è l’Europa che vogliamo», aggiunge l’ex premier, socialista, belga, figlio di italiani in fuga. Un’Europa della diversità in cui ognuno partecipa allo stesso progetto. Un progetto di prosperità, di solidarietà e della giustizia.
Uno dei commenti (ho poi controllato il suo account: è una signora italiana che oggi vive a Ginevra) è stato questo:
Ma ci faccia il piacere di stare zitto, sono stufa di sentire equiparata l'emigrazione italiana, con questa orda selvaggia e dilagante, gli italiani per lo più, quando andavano avevano già un contratto di lavoro, e se no venivano cacciati a calci nel culo. In Svizzera ci sono ancora come museo le baracche della vergogna, dove venivano stipati gli italiani che lavoravano lì per 4 soldi, senza nessuna certezza o aiuto, era così o te ne tornavi al paese, non parlate solo di quello che vi piace o vi conviene.
Questa spietatezza, questo non vedere l'altro come un essere umano, questo sentimento diffuso di odio, ostilità, disprezzo sempre più esteso - "orda selvaggia e dilagante" - è l'orrore dei nostri tempi (in realtà la Storia è piena di questo odio... Ma questa volta con tutta l'informazione che c'è - i video, le foto, le testimonianze diffuse soprattutto nel mondo digitale - siamo di sicuro più colpevoli). A questo orrore bisogna opporsi con tutte le nostre forze. A parte la verità dei dati e dei fatti da contrapporre di volta in volta alla disinformazione, alle bufale, alla malafede sui temi dell'immigrazione - nel nostro piccolo ci stiamo lavorando e a breve uscirà un articolo approfondito a firma di Angelo Romano e Andrea Zitelli -, c'è un altro racconto da far emergere, a cui dare sempre più forza e visibilità. È il racconto dell'accoglienza. Dell'abbraccio. Piccole, grandi storie che ognuno di noi può condividere, diffondere. Racconti-anticorpo contro il veleno che ci vuole disumani. Sempre sulla pagina fan di Valigia Blu abbiamo pubblicato un articolo del Post che riproduce una vignetta razzista e anti-italiana originariamente pubblicata sul quotidiano di New Orleans The Mascot nel 1888. La vignetta si intitola “Per quanto riguarda gli italiani” e mostra alcune scene di vita degli immigrati italiani a New Orleans e alcuni consigli su come liberarsi di loro: arrestandoli e uccidendoli. Alle parole di odio della signora di Ginevra oppongo il commento di Massimo a questo nostro post.
La storia dell'immigrazione italiana a New Orleans, che precede quella di New York, è piena di lacrime e di risvolti inattesi. Iniziata per sopperire manodopera alle piantagioni del sud alla fine della Guerra Civile, dopo la fine della schiavitù, passò attraverso fasi alterne, che purtroppo, a seguito di alcuni episodi di cronaca nera che avevano coinvolto alcuni immigranti italiani, si tradusse in una vera e propria caccia all'italiano. I nostri connazionali così furono costretti ad abbandonare la città dove avevano raggiunto posizioni significative, trovando rifugio in stati limitrofi come il Texas. Quelle popolazioni, per lo più di origine siciliana, subirono ingiustizie incredibili. Ma gli italiani non hanno più memoria.
Alle parole disumane che propongono le baracche della vergogna come cosa buona e giusta contrappongo l'immagine della bambina che a Ventimiglia distribuiva caramelle ai migranti
La nuova Europa e' questa bambina che regala le sue caramelle ai #migranti alla frontiera #Ventimiglia @lapresse_news pic.twitter.com/vhVTJCBid8 — Jan Pellissier (@JanPellissier) 16 Giugno 2015
E le foto della generosità dei milanesi che hanno portato cibo e acqua alla stazione di Milano. Le ha pubblicate su Facebook Susy Iovieno.
Lo stesso è successo a Roma come riporta la testimonianza di Nathania Zevi
Nella tendopoli allestita nei pressi della stazione Tiburtina di Roma lavorano quasi tutti volontari. Raccontano del...
Posted by Nathania Zevi on Martedì 16 giugno 2015
E a Genova, come racconta Gabriella De Rosa
Notizie che mi danno un filo di speranza che non tutta l'Italia è impazzita. A Bogliasco (Genova), ci sono famiglie che vogliono mettere a disposizione dei profughi le loro case in campagna, a Cosenza due immigrati afghani tengono corsi di inglese gratis a una ventina di italiani per ringraziarli dell'accoglienza, a Milano, tante persone hanno portato ai centri di raccolta più di quanto era necessario, il centro Shoah di Milano, dove sanno cosa vuol dire essere perseguitati, ha messo a disposizione parte dei suoi locali per i profughi. Bravi tutti
Ieri ho letto un bellissimo articolo pubblicato da Qcodemag - foto e testi di Cristina Mastandrea: è il racconto dell'Italia che ha riscoperto l'accoglienza. Dell'Italia solidale, delle organizzazioni e dei cittadini che aiutano i migranti.
Da Milano a Roma, molti cittadini si sono mobilitati per portare aiuti nei centri che, a ridosso delle stazioni ferroviarie, danno ospitalità a centinaia di migranti in transito verso il Nord Europa per lo più eritrei, somali ed etiopi.
Domenico Quirico ci ha raccontato da cosa scappano questi nostri fratelli: “Nel mio Paese ero uno schiavo, fin da bambino, arruolato a spaccare pietre. Ora almeno sono vivo. Qui possiamo sperare”. Nel racconto dei migranti che ce l’hanno fatta ad arrivare in Europa le immagini di una violenza che non lascia alternativa. Scrive Quirico:
Bisognerebbe per capire raccontare tutto il dolore del mondo, un mondo di sconfitti a cui stiamo attenti come a una epidemia.
Questa la testimonianza di un ragazzo siriano:
No, nessuno ci vuole qui, sono uno straniero e potrò esser contento che non mi si scacci in un campo peggiore. Non sono né libero né ricco ma nel mio paese era la stessa cosa. Questo è già un paradiso, un paradiso di ombre se vuoi, separato da tutto ciò che importa agli altri e anche a me. Un paradiso per sperare un momento. Ma mi guardo indietro, dove vivevo io sono solo rovine, due miei fratelli sono stati uccisi, suo fratello, lo vedi quello piccolo?, è stato sgozzato perchè non aveva soldi per pagare il riscatto… dovevano star dietro una ringhiera a guardare i massacri, la gente seppellita viva sotto le macerie? Mentre il sangue monta di un centimetro ogni giorno ringraziare perché voi invece potete alzarvi, bere il caffè, leggere le notizie di noi sul giornale?
Alla bava, all'intolleranza, al freddo cinismo voglio contrapporre l'esperienza della microaccoglienza diffusa raccontata su Vita.it
Ad aiutare i giovani africani ospitati è una rete di volontari. Inoltre i rifugiati sono coinvolti nella vita e nelle attività del paese, compresa la partecipazione ad Abbracciamondo, festival interculturale e itinerante che coinvolge diversi Comuni della Valle. «È chiaro che per fare funzionare il modello occorre una comunità bendisposta e non ideologizzata, ma il meccanismo è semplice, anzi tanto semplice da essere perfino banale», sostiene il sindaco di Malegno. «Si tratta di fare microaccoglienza attraverso una collaborazione tra il Comune, i privati che mettono a disposizione appartamenti sfitti e le cooperative. Nel periodo di permanenza agli immigrati viene insegnato l’italiano, affidata qualche mansione di interesse sociale e per chi decide di restare, si cerca la possibilità di un lavoro. In questo momento a Malegno ci sono due appartamenti da 4 persone. Ma il territorio bresciano ha 206 Comuni e il calcolo è presto fatto: se ognuno adottasse il nostro modello, che è modulare e facilmente riproducibile, ci sarebbe la possibilità di offrire più di 800 posti. E senza nessun onere per i Comuni, anzi creando nuove risorse perché per ogni appartamento che ospita 4 rifugiati, c’è un ritorno sul territorio di circa quattromila euro al mese. Insomma, si potrebbe dire che così facciamo vedere di essere più leghisti dei leghisti», sottolinea un po’ provocatoriamente il sindaco di Malegno, che confessa di essere amareggiato per le ultime dichiarazioni del governatore Maroni. «Tutta la questione», conclude Erba, «sta diventando una battaglia ideologica che rischia di far perdere a tutti la bussola: io penso invece che la ricetta giusta sia un modello di microaccoglienza diffusa, come abbiamo fatto e stiamo facendo noi.
In questo momento storico il più grande delitto che possiamo commettere è volgere lo sguardo altrove. Su Facebook ieri ho letto questo post di Gabriele Manili:
Prendo spunto dal pensiero di una mia amica, letto qui qualche tempo fa.
Si chiedeva come fu possibile che i tedeschi degli anni Trenta non si fossero accorti dell'Olocausto, come poterono voltarsi di fronte al dramma degli ebrei e delle minoranze in genere. Ebbene, concludeva, è nello stesso identico modo nel quale noi ci voltiamo di fronte a questo scempio.Non ci sono i reticolati dei campi di sterminio, ma c'è un confine.
Non ci sono i forni, ma navi piene di corpi in fondo al mare.
Non ci sono i gerarchi in divisa nera, ma ci sono politici in camicia verde.
Non ci sono sfilate militari, ma silenziosi contractor ingaggiati a tempo pieno.
Non ci sono le leggi razziali, ma la sospensione di Shengen.
Non ci sono i treni piombati, ma campi profughi nelle stazioni.
Non ci sono i nasi aquilini, ma c'è la scabbia.Oggi alcuni ragazzi stanno portando generi di conforto ai migranti, fra lo scherno e l'indignazione piccolo borghese.
È un buon giorno, oggi. Un giorno in cui credo che l'umanità non sia definitivamente condannata a rivivere la sua storia.
Sulla quarta di copertina del libro di Marcel Mauss "Saggio sul dono" si legge:
Le relazioni fra gli uomini nascono dalla scambio. Scambio che viene avviato con un dono di una della parti all'altra, la quale si sentirà in obbligo di contraccambiare tale dono, innescando così una catena di scambi. Ma non sono solo gli oggetti a circolare, dice Mauss, anche lo spirito del donatore viaggia insieme al dono, dando così vita a un legame fra gli individui che va ben al di là del puro scambio economico.
Proviamo a scambiarci racconti d'amore per il prossimo, come fossero doni.