Matteo Renzi, le riforme e la retorica del fare
7 min letturaUna delle principali conseguenze delle primarie del Pd vinte da Matteo Renzi è il massiccio impiego nel pubblico dibattito dello schema "Fare vs Immobilismo" o "Fare vs Larghe Intese", in particolare in queste settimane in cui ha tenuto banco la riforma della legge elettorale, divenuta scadenza improrogabile dopo che la Corte costituzionale ha bocciato il Porcellum (la Legge Calderoli) - a meno che il Parlamento non voglia consegnare il paese all'anarchia elettorale.
Secondo questo schema chi fa le cose è bravo, e si oppone a chi invece perde tempo, rallentando lo sviluppo del paese. «Matteo» fa le cose, ed è bravo perché fa le cose; va veloce come un treno, o come un ciclone. È bravo perché non ricorre alle larghe intese (La Pratica Formalmente Nota Come «Inciucio»). Con lui «basta innaturali larghe intese», scrive infatti su Europa Mario Lavia, e in effetti accordarsi con Berlusconi - pregiudicato, interdetto in Appello ai pubblici uffici, decaduto e su cui pendeva da tempo l'ennesimo e preannunciato rinvio a giudizio - pare piuttosto una ristretta intesa, allargata in un secondo momento ad altri partiti. Il «ciclone Renzi», per Marco Alfieri (Linkiesta) dovrà condurre le riforme fuori dalla palude in cui la «Repubblica delle chiacchiere» le impantana puntualmente. Sul Post, Menichini parla di «Partito della palude», con analogo effetto retorico. Elisabetta Gualmini sulla Stampa ricorre alla contrapposizione tra «Renzi-Perseo» e la «Politica-Medusa», che pietrifica: sembra evidente la citazione dalla lezione sulla Leggerezza di Calvino (Lezioni americane); meno evidente la contraddizione di chi mette la «Politica» come ostacolo di un politico, come se Renzi fosse di un altro piano, e sì che in fondo ha vinto delle primarie di partito, mica è nato da Zeus!
Francesco Nicodemo, responsabile della comunicazione del Pd, usa la variante «Matteo fa le cose alla luce del sole»:
[...] molti non sono abituati alla trasparenza, alle cose che si fanno alla luce del sole, petto in fuori e testa alta. E non sono nemmeno abituati a tutto questo coraggio, perché è di coraggio che stiamo parlando. Il coraggio che ci vuole a smettere di fare le vittime sacrificali da vent’anni e scegliere finalmente di essere artefici del nostro destino. Ma grazie a questo coraggio per la prima volta è Berlusconi ad andare al Pd e non viceversa, e ci va dopo che Renzi ha incontrato tutti gli altri leader di partito. Perché, nel caso che non ce ne fossimo accorti, il Pd sta dettando i tempi, i modi e i metodi della legge elettorale, e se porteremo finalmente a casa la nuova legge sarà solo grazie a questo coraggio, che resta l’unico antidoto ai teorici del proporzionale e delle larghe intese sine die [corsivi miei].
Qui invece usa la variante dell'«antirenzismo militante» che si oppone all'«accelerazione» di Renzi, dove questa rapidità è associata al vincitore mitico, straniero alle cattive pratiche (il nodo gordiano fu sciolto da Alessandro Magno):
In verità non è che sia sorpreso dall’antirenzismo militante. Soprattutto a sinistra. La chiamo la sindrome dell’usurpatore. Renzi che conquista il quartier generale come Alarico. Un barbaro che non ha rispetto di belletti, liturgie, pomposità di un impero che è già caduto e che si illude di perseguire la gloria di Roma imperitura. Facile immaginare alcuni dire sdegnosi «o tempora o mores!». Ma lo sdegno non scioglie il nodo gordiano della ventennale transizione da cui quegli stessi non ci hanno tirato fuori [corsivi miei].
Lo stesso Renzi ricorre a questa retorica, facendone forse lo strumento più congeniale del proprio lessico politico, che non a caso si fa forza del riuscito slogan «#cambiaverso»:
Talvolta lo fa con esiti involontariamente comici, come quando proclama l'inaugurazione della pista ciclabile - un'impresa non proprio da Alessandro Magno - in opposizione alle «stanche liturgie della politica tradizionale» (roba vecchia che rallenta, per l'appunto):
Il «fare» come valore acriticamente positivo è esplicito in questa immagine, che riprende la grafica della campagna per le primarie e in cui Renzi «fa chiarezza» sull'accordo con Berlusconi:
Da notare che qui a rallentare il «fare» sono le «parole». Ma di «parole» sono fatte anche le critiche, o le contro-proposte. Perciò tutta questa enfasi contro le parole - nel tempo, nella frequenza e nella molteplicità delle fonti - delinea uno spazio di senso in cui parlare contro il dettame del «fare» è un ostacolo, e non l'esercizio di una facoltà legittima e basilare per una democrazia. In questo spazio così delineato, pensare di dissentire è già un comportamento deviante: «occhio, con le tue chiacchiere fai perdere tempo» è la mentalità dominante che pre-esiste all'esercizio della parola. Così se critichi devi anche dimostrare, oltre alle tue ragioni, di non essere «palude», rivendicando il diritto a non essere considerato tale.
Capisco che un politico ricorra a certi frame: fa parte del gioco delle parti, della propaganda (come già visto, sempre qui su Valigia Blu, quando Letta annunciò l'abolizione del finanziamento pubblico). Ma chi svolge una professione intellettuale come il giornalista, il ricercatore, il divulgatore, chiunque costruisca la propria professionalità sul peso specifico delle parole dovrebbe criticamente tenersi a distanza di sicurezza da questa recita a soggetto. Dovrebbe anzi dare gli strumenti per interpretarla, sconfessandola quando occulta fatti di rilievo: sennò, oltre alla perdita di credibilità, rischia la fine dell'attore che si immedesima troppo nel personaggio e non sa più uscire dalla parte. Altrimenti si entra in una bolla comunicativa che distorce tutto e si disarticola dai fatti, consegnandoci a una palude sì, ma di opinioni parziali ed eterni relativismi senza memoria.
Prendiamo ad esempio il Jobs act, che è stato annunciato da Renzi sul proprio sito. In realtà non è il primo annuncio a riguardo: il Jobs act, infatti, menzionato già nel marzo 2013, avrebbe dovuto essere pronto nella primavera dello scorso anno (decade dunque qualunque obiezione alla «eh, ma a quel tempo Renzi non era segretario»). Stando ora alle recenti parole dello stesso neo-segretario, avrebbe dovuto avere forma compiuta entro un mese dalla direzione nazionale del Pd dello scorso 16 gennaio, dunque entro il 16 febbraio. Eppure il dibattito sul Jobs act si è stemperato proprio dopo la direzione nazionale, tanto che sul sito di Renzi non se ne fa più menzione nei giorni successivi; la prima news post-direzione riguarda la consegna di tre alloggi di edilizia residenziale pubblica. Su Twitter il commento post-direzione di Renzi non menziona il Jobs act:
Legge elettorale seria, via senato e province, cambiare le regioni. Mi hanno votato per questo. Molti cercano di frenare ma #iononmollo
— Matteo Renzi (@matteorenzi) 17 Gennaio 2014
Il quale però ricompare il 29 gennaio:
Bene così. Adesso sotto con il Senato, le Province, il titolo V. E soprattutto con il #Jobsact Dai che questa è #lavoltabuona
— Matteo Renzi (@matteorenzi) 29 Gennaio 2014
Questo perché la presentazione della proposta è slittata a febbraio, inizialmente alla direzione del 6 febbraio, poi a quella del 20. Colpa della «palude»? Di sicuro questa corsa all'annuncio, proprio quando si affida all'enfasi del proclama e alla narrazione, slegandosi dalle dinamiche politiche che concretizzano la proposta, si rivela controproducente.
Del resto il problema di quest'ultimo ventennio non è certo l'immobilismo, ma la strada percorsa dal paese attraverso le riforme fatte.
Il Porcellum, ad esempio, è del 2005 e sostituisce la Legge Mattarella del 1993. Già Veltroni, nel 2007, si incontrò con Berlusconi per una possibile riforma. Lì però non si gridò alla fine di un ventennio o alla svolta epocale, e non si capisce bene perché: furono incontri «alla luce del sole», come fu per la Bicamerale voluta da D'Alema. Il discrimine è il luogo dell'incontro, stavolta? Sfugge la logica per cui un parlamentare decaduto, di nuovo elevato al rango di interlocutore politico, al punto da poter dettare condizioni sulla riforma elettorale, non debba festeggiare solo perché giocava fuori casa. Se Parigi val bene una messa, figurarsi se non vale un incontro nella sede del del Pd!
Nel fantomatico ultimo ventennio gli esempi non mancano, anzi. Ne do un breve e parziale elenco relative, soffermandomi su quelle votate anche dallo schieramento di centro-sinistra (Progressisti, Ulivo, Pd), visto che oggi la retorica del fare è impiegata dall'area politica che si definisce «di sinistra».
Governo Dini: Riforma Dini (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), 1995.
Governo Prodi I: Reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti (non è l'unico provvedimento a riguardo), con la legge n° 2 del 2 gennaio 1997; Leggi Bassanini, che raggruppano legge n° 59 del 15 marzo 1997, n° 127 del 15 maggio 1997, n° 191 del 16 giugno 1998 e n° 50 dell'8 marzo 1999 (quest'ultima è stata varata durante il Governo D'Alema I); «pacchetto Treu» sull'occupazione, 1997; Legge Turco-Napolitano, che istituisce i Centri di permanenza temporanea, 1998; Legge Maccanico; privatizzazione del 35,26% del capitale Telecom (qui un breve riassunto delle varie tappe della privatizzazione).
Governo D'Alema I e II: Privatizzazione - tra le altre - di Autostrade, 1999; Riforma Berlinguer (Legge quadro in materia di riordino dei cicli dell'Istruzione), 2000.
Governo Prodi II: Decreto Bersani-Visco, 2006; Decreto Bersani-bis, 2007.
Governo Monti: Riforma Fornero delle pensioni, 2011; conversione - con modifiche - del decreto sull'Imu (Governo Berlusconi IV), con la legge n° 214 del 24 dicembre 2011; inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, 2011; Riforma Fornero del mercato del lavoro, 2012; Legge Severino, 2012.
Governo Letta: Ratifica Convenzione del Consiglio d'Europa, 2013; legge di contrasto alla violenza di genere, 2013.
E naturalmente in questo ventennio è cambiata la moneta, è entrato in vigore il trattato di Lisbona: ci sono stati cambiamenti strutturali nell'ordinamento dello Stato, in numerosi settori; D'Alema nel 2013 vantava il primato di riforme dei governi di centro-sinistra, per cui il punto non è "Fare vs Immobilismo". Il punto è cosa si fa e cosa non si fa, gli interessi alla base dei provvedimenti e gli scopi verso cui tendono: di questo si occupa la politica (e «politica» non è sinonimo di «partiti»). È stato veloce il Governo Monti nei provvedimenti presi («Super Mario» ce lo ricordiamo?), ma di quella velocità c'è chi ha scontato gli effetti negativi, come gli esodati: prendere la rapidità come fattore auto-validante non ha senso. Anche il centro-destra fa e ha fatto: proprio nel Governo Monti, ad esempio, Forza Italia e Partito democratico hanno fatto insieme, perciò questo tipo di retorica non può essere «venduta» come qualità politica di Renzi, o impugnata da chi lo sostiene come segno di un'appartenenza a sinistra. Si è, piuttosto, nel terreno delle «idee senza parole» di cui parlava Furio Jesi in Cultura di destra: una forma malleabile e oscurantista attorno cui costruire consenso.
Ci siamo forse scordati del «Governo del fare», espressione tipica della retorica berlusconiana? Perché l'«uomo del fare» Berlusconi è di destra, e l'«uomo del fare» Renzi è di sinistra? Perché chi usava quella retorica allora era berlusconiano e di destra, e oggi è renziano e di sinistra? E Letta, col suo «Decreto fare» come si colloca? Ma soprattutto: perché le riforme sarebbero un valore positivo di per sé, e la contrarietà alle riforme un valore negativo di per sé, come se la politica fosse un treno di lanciato lungo un binario e che al massimo consente di scegliere il posto a sedere?