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Legge sulla diffamazione: sul web tornano di moda gli anni ’40

11 Ottobre 2014 8 min lettura

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Legge sulla diffamazione: sul web tornano di moda gli anni ’40

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Diffamazione a mezzo stampa
Puntuale come le tasse anche quest'anno rispunta l'ennesima legge che mira ad estendere le norme per la stampa alla rete Internet. Si tratta di una serie di iniziative di legge discusse congiuntamente, laddove, come spiega bene Guido Scorza, gli emendamenti raccolti sembrano giustificare ancora una volta l'abusatissimo termine di legge bavaglio.

Il relatore delle norme, ora in discussione al Senato, precisa che si tratta di un recepimento di istanze dell'Ordine dei giornalisti:

Il disegno di legge sulla diffamazione in discussione nell'Aula del Senato ha un obiettivo prioritario: quello di cancellare dall'ordinamento italiano il carcere per i giornalisti, una pena che non esiste più in nessun Paese europeo per reati correlati all'esercizio del diritto-dovere all'informazione.
Per fronteggiare le questioni relative ai nuovi media, si è compiuta la scelta di equiparare le testate on line alle testate giornalistiche. Nessun bavaglio al web, dunque, ma una regolamentazione che è stata richiesta dallo stesso ordine dei giornalisti, del quale si sono recepite tutte le richieste.

In realtà non è vero che il carcere per la diffamazione a mezzo stampa non esiste più in nessuno Stato europeo, come precisa anche uno studio della Camera dei Deputati del 2013, mentre invece è vero che esiste una generale tendenza della magistratura a non applicare pene detentive ai giornalisti se non quando i giudici rilevano un comportamento particolarmente delinquenziale o uno spiccato disinteresse per la verità dei fatti (ad esempio, se il giornalista rifiuta la rettifica oppure inventa dei fatti da attribuire ad una persona al fine di svilirne la reputazione).
Del resto anche in Italia si fa così, giornalisti che sono andati in carcere per diffamazione si contano, dall'Unità d'Italia, sulle dita di una mano.
La cancellazione delle pene detentive, sostituendole con pene pecuniarie, potrebbe, invece, innescare un meccanismo perverso in base al quale l'editore con più soldi in cassa può permettersi articoli più falsi.

Semmai volessimo riscontrare un'anomalia italiana, questa è l'esistenza di un Ordine dei giornalisti, caso davvero unico.

Web come la carta
La stranezza, comunque,  come rileva  Andrea Iannuzzi, è che l'Ordine, e l'estensore della norma, pensano di risolvere le “anomalie” estendendo una legge del '48 ad una tecnologia del 2000. La norma, infatti, prevede multe salate, invece del carcere, e una responsabilità estesa per il direttore responsabile, che risponde anche “nei casi di scritti o di diffusioni non firmati”.
Ovviamente c'è anche l'immancabile estensione della rettifica, per cui: “il direttore è tenuto a pubblicare gratuitamente e senza commento, senza risposta e senza titolo, con la seguente indicazione 'rettifica dell'articolo (titolo) del (data) a firma (l'autore)' nel quotidiano o nel periodico o nell'agenzia di stampa, o nella testata giornalistica online le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità”.
Se la rettifica non viene pubblicata entro due giorni ci si può rivolgere al giudice che irroga una sanzione amministrativa e il giornalista rischia anche la sospensione temporanea.

Considerato che la pubblicazione della rettifica dipende dal direttore, la cui volontà sopravanza quella del giornalista autore dell'articolo, è meritorio che il giornalista vada esente da pena se chiede “a norma dell'articolo 8, la pubblicazione della smentita o della rettifica richiesta dalla parte offesa”. In assenza di tale disposizione potrebbe accadere che il giornalista venga punito per la scelta del direttore di non pubblicare comunque la rettifica.

Le colpe ricadono sui direttori
Viene ulteriormente modificata la norma sulla responsabilità del direttore responsabile, la quale è limitata “ai contenuti prodotti, pubblicati, trasmessi o messi in rete dalle stesse redazioni”, quindi con esclusione dei commenti dei lettori, ma parrebbe con riferimento anche ai blog ospitati dal giornale ed anche a tutto ciò che la redazione pubblica o ripubblica (ad esempio sui social). Questo è un punto da chiarire perché normalmente tali blog non sono sotto il controllo del direttore responsabile, e il blogger ne risponde personalmente (anche se il blog è strutturalmente inserito nel giornale online) proprio perché la pubblicazione dipende solo dal blogger. Ovviamente se i post del blog sono controllati preventivamente dal direttore o dalla redazione, la responsabilità è pacifica.

Tale responsabilità viene precisato che è “a titolo di colpa”. In realtà già oggi la responsabilità del direttore è a titolo di colpa, ciò vuol dire che già adesso ai fini della responsabilità del direttore è necessario accertare non solo l'intervenuta violazione di una regola cautelare ma anche l'esistenza di un coefficiente psicologico (la colpa) che renda la condotta rimproverabile al suo autore. Quindi, il dovere di controllo dovrebbe poter essere da questi adempiuto con una ordinaria diligenza, solo in questo caso può dirsi “esigibile” in concreto e portare ad una responsabilità.
La stessa Cassazione (Corte di Cassazione n. 35511, del 16 luglio 2010) ha avuto modo di precisare che “la c.d. interattività (la possibilità di interferire sui testi che si leggono e si utilizzano) renderebbe, probabilmente, vano –o comunque estremamente gravoso- il compito di controllo del direttore di un giornale online”. Infatti dobbiamo considerare che, a differenza di un articolo che va sul cartaceo, quelli online possono essere modificati anche dopo la loro pubblicazione. Come si concili una tecnologia di questo tipo con un controllo editoriale non è dato saperlo.
Il risultato comunque sarà che o si applicherà la norma in base alla sentenza citata, così di fatto depotenziandola (occorrerà provare caso per caso che il direttore responsabile ha letto l'articolo), oppure si riterrà esigibile il controllo sui contenuti editoriale a prescindere, così reintroducendo una responsabilità oggettiva del direttore solo per l'online.

Il punto è essenziale e si ricollega alla parificazione del giornale su carta con l'online, laddove il primo è pensato come limitato sia nel numero di pagine sia nella quantità di caratteri per articolo, permettendo così un controllo preventivo del direttore che fonda la sua responsabilità. Tale controllo, invece, è di difficile attuazione sul web laddove un giornale è teoricamente infinito, potendo contenere migliaia se non milioni di pagine o di articoli in costante aggiornamento (del resto l'orientamento attuale della giurisprudenza anche comunitaria è per l'obbligo di mantenere aggiornate le notizie), per cui o sarà necessario moltiplicare il numero dei responsabili (aumentando i costi, e stiamo sempre lì) oppure la responsabilità del direttore finirà per essere oggettiva, cioè risponderà del contenuto del giornale senza esserne realmente a conoscenza.

Controllo
L'impressione è che si voglia mantenere un controllo su cose che ormai non sono più controllabili da tempo, e per questo motivo si estende una normativa creata per ben altri mezzi di diffusione ad una tecnologia del tutto differente. L'aumento degli oneri burocratici per la stampa sul web, e dei conseguenti costi (consideriamo che il primo cliente dei giornali italiani è la Presidenza del Consiglio con le provvidenze per l'editoria), può facilmente diventare una forma di dissuasione dall'esercizio dell'attività giornalistica (quindi senza copertura di un editore).

La stessa Cassazione ha più volte ribadito che internet è un mezzo di comunicazione del tutto difforme rispetto al giornale di carta, e anche la recente ordinanza del Tar del Lazio sul Regolamento Agcom ha ampiamente ripreso questo argomento.
Precisiamo subito che l'allineamento della disciplina tra cartaceo e online è già avvenuto, le relative norme però si applicano solo alle testate registrate, laddove l'obbligo sussiste solo nel caso in cui l'organizzatore della pubblicazione proceda spontaneamente all'iscrizione della stessa nel registro della stampa (iscrizione necessaria se si richiedono le provvidenze per l'editoria). Solo in tale caso la pubblicazione online potrà dirsi prodotto editoriale e quindi soggetto alle medesime norme previste per la stampa cartacea.
La norma in discussione al Senato farà immancabilmente propendere per la non registrazione della testata online, data la gravosità degli oneri previsti.

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Altra norma prevede la responsabilità del direttore per “i delitti commessi con il mezzo nella stampa nei casi di scritti o diffusioni non firmati”. Se interpretata estensivamente (fermo restando quanto detto sopra) porterebbe il direttore a rispondere anche dei commenti dei lettori (che spesso sono anonimi). Si dirà che i commenti non sono “pubblicati” dalla redazioni, ma molti giornali attuano la moderazione preventiva per cui i commenti sono comunque “trasmessi” o “diffusi” dalla redazione. Del resto la norma parla di “scritti o diffusioni”, non di articoli.

Infine, poiché va molto di moda la sentenza Google (la cita espressamente la relatrice della legge), si prevede il diritto per l'interessato a domandare l'eliminazione dai siti internet (tutti i siti internet?) e dai motori di ricerca dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione di legge. E tale diritto passa agli eredi in caso di decesso dell'interessato.
È interessante notare che mentre il primo comma (art. 3) prevede la possibilità di chiedere (ma tutti possono chiedere, ben altro è il diritto ad ottenere) l'eliminazione di contenuti diffamatori o dei dati personali, il comma 2 prevede il ricorso al giudice solo per l'eliminazione “delle immagini o dei dati”, senza riferimento a diffamazione.
In realtà la sentenza della Corte di Giustizia europea trova la sua base giuridica nel trattamento dei dati da parte dei motori di ricerca a fini di profilazione, per cui non è estensibile in alcun modo a diffamazioni o altre motivazioni, e certo non è applicabile ad un giornale (citato espressamente nella sentenza) né a tutti i siti internet. Per quanto riguarda, invece, i dati trattati in violazione di legge, già l'attuale normativa (Codice privacy) prevede il diritto ad ottenerne la cancellazione.
Cosa ben diversa è il diritto all'oblio, oggetto della sentenza Google, che riguarda la pubblicazione lecita di dati per i quali non risulta più necessaria la permanenza online a seguito del trascorrere del tempo, e anche qui la giurisprudenza attuale la prevede, laddove la sentenza della CGUE ha solo stabilito che anche un motore di ricerca deve conformarsi a questo diritto.
La norma in questione, quindi, appare sotto un aspetto inutile, sotto un altro deleteria e in contrasto con la normativa comunitaria.

Rettifica
Infine, approfittando della differenza ontologica tra cartaceo e web, e quindi che online l'unico limite è la pazienza e l'interesse del lettore, vogliamo ricordare che la rettifica è un istituto riparatorio sui generis che non tende ad accertare la verità dei fatti (compito demandato istituzionalmente ai giudici) e che prevede l'automatismo della sanzione alla mancata pubblicazione, cioè il giudice, una volta portata dinanzi a lui la questione, si limiterà a verificare la mancata pubblicazione della rettifica e non se l'articolo sia vero o falso o diffamante. È sufficiente che il contenuto sia ritenuto dal soggetto citato nell'articolo, a suo insindacabile giudizio, lesivo della sua dignità o contrario a verità.
Tale automatismo appare in contrasto con la Convenzione dei diritti dell'uomo, secondo una sentenza della Corte di Strasburgo, la quale sostiene che, invece, i giudici nazionali debbano contemperare le libertà e i diritti in gioco e verificare che la rettifica non comprima la libertà di espressione, invece di limitarsi ad applicare automaticamente l'obbligo di pubblicare la rettifica.

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