“La luce prima”, canto d’amore per la Madre
3 min letturaSarebbe riduttivo considerare La luce prima di Emanuele Tonon un libro autobiografico, sebbene parli di eventi accaduti all'autore - il malore improvviso della madre, il ricovero, la morte, l'espianto degli organi. Privo di divisioni in capitoli, il libro è un corpo unico di frammenti. Domina la seconda persona singolare, come per una preghiera che dispone ricordi, circostanze, dettagli attorno a un intenso centro evocativo che è, per l'appunto, la figura materna.
Tuttavia approcciare il libro come un testo autobiografico tradirebbe la poetica infusa da Tonon. La voce dell'autore non narra vicende: piuttosto, si eleva a canto, un canto che trasfigura ciò che esprime, celebrandolo. Il linguaggio può compiere questa operazione solo riconoscendo il ruolo del «silenzio»:
La storia che racconto, questi frammenti di te, amore, è solo visione, non cronaca. È testimonianza. Niente può essere detto nel linguaggio che non sia visione, nessuna verità può passare interamente nel linguaggio. La verità appartiene a un altro regno, a un vertice definitivo di silenzio e beatitudine. Mi raccontavi il mondo, tu, era da te che mi arrivava. Poi hai smesso di farmelo arrivare, amore. Mi pare di essere tornato a quella vocalizzazione di quando ero il tuo figlio piccolissimo, quel balbettio che rendeva perfettamente la visione, come la rende il silenzio. È nello sterminato silenzio che si invera il mondo. In principio era il silenzio, non il verbo.
Sono parole mosse da una «fame verticale, di cose ultime». Immerso nel trauma, l'autore è spinto a denudarsi del superfluo, a ripensarsi e ricrearsi lungo quest'asse verticale. Vede ad esempio quanto sia effimera l'ambizione letteraria coltivata con il romanzo d'esordio, Il nemico:
Non ti ho fatto leggere il mio libro. Lo hai letto di nascosto, quando ero via. Non volevo, non volevo farti male. E te ne ho fatto tantissimo. Avrei dovuto [...] parlare di cosa avevi letto, di quanto ti avevo fatto male mentre leggevi le parole scritte da quel tuo figlio incomprensibile, quell’uomo che solo tu potevi amare. Invece, ti dicevo solo che ero diventato il tuo figlio scrittore. Ma tu, amore mio, madre mia piccolissima e ancorata alla terra, mi facevi capire, con i tuoi silenzi, con i tuoi tiri di sigaretta, con il tuo sguardo fulminante perché mezzo cieco, che era vana la mia gloria. Che era assolutamente vana. Che non ero niente di più del figlio che avevi messo al mondo da sola, con un amore prossimo allo spavento.
L'aggettivo ricorrente riferito al mondo materno è «piccolo», come a suggerire una forza di segno opposto alla vana grandezza materiale: «recitavi preghiere piccolissime», «le tue stanze erano questa piccola cucina e questo piccolo salotto», «la piccola stiratrice perfetta». E la natura di questa forza «minuscola, immensa» è un amore che, nella morte (che è assenza e silenzio) rivela la propria vastità totalizzante. Solo dopo la morte della madre l'autore conosce la storia di come sia venuto al mondo:
facevi la serva presso un medico di Napoli. [...] Ora ti vedo, mentre passi, piccola regina povera, davanti alla vetrina dell'orefice che ti ingraviderà. Vedo i suoi occhi sul tuo corpicino, vedo come gli si aprono le froge, come comincia a colargli il sudore, a salivargli la bocca, a gonfiarglisi la patta. Ti ha presa, ti ha avuta, si è fatto vanto della tua bellezza.
Nell'amore ricevuto ancora prima di nascere, come lo si può ricevere da una madre «bambina» che diviene «donna fuori dal tempo [...] quando era inconcepibile mettere al mondo un figlio senza essere sposati», pulsa così lo scopo più autentico che può darsi la scrittura del figlio:
Io ho bisogno di fare memoria di te, di renderti la vita che mi hai dato, almeno così. Posso amarti solo nella ricomposizione di te, nel riempimento di te, lasciandomi andare allo scavo nella memoria, alla ricerca dell’introvabile tra i muri freddi di questa casa dal soffitto basso.
Scriveva Pascoli, nella prefazione ai Canti di Castelvecchio che «la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, [...] è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico». La luce prima, in un mondo creato da un Dio «inutile» che«non salva», «dove i santi hanno smesso di morire», affida alla scrittura il compito di una redenzione razionalmente impossibile, ma che costituisce l'unica strada percorribile per salvarsi dal «delirio». E ogni parola di Tonon sembra cercare e trovare il canto nel delirio in cui lo gettano gli eventi, facendo di quel canto un dono; ogni parola è un atto d'amore. E la somma di questi atti gli permette di trasfigurare la madre Enza e se stesso in «Madre» e figlio universali («Emanuele il Dio con noi»), e di trasformare la morte biologica in celebrazione della vita.