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Israele un anno dopo: la vita nei Kibbutz nelle zone colpite dagli attacchi del 7 ottobre

7 Ottobre 2024 11 min lettura

Israele un anno dopo: la vita nei Kibbutz nelle zone colpite dagli attacchi del 7 ottobre

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Rivolgere il proprio sguardo verso Israele per capire cosa sia cambiato nel paese a un anno dal massacro del 7 ottobre implica inevitabilmente una scelta sul cosa guardare. La vulgata sulla società israeliana recita correttamente che Israele è un mosaico di tante comunità, ma, se già in tempi meno complessi era difficile avere uno sguardo d'insieme approfondito, oggi è semplicemente impossibile.

Tutto il paese ha affrontato un trauma iniziale che ha profondamente minato quell'idea di un Israele sicuro nei suoi confini, mentre ogni comunità, oltre alle problematiche collettive, ha dovuto affrontare anche quelle particolari rendendo ulteriormente meno semplice per un osservatore esterno comprendere le complessità pregresse.

Il mondo dei kibbutz è stato non solo quello più colpito il 7 ottobre, ma quello dove a oggi si riassumono, amplificate drammaticamente, larga parte delle problematiche che stanno affliggendo Israele. Cosa sia successo ai kibbutz del sud è ormai tristemente noto ma cosa sia avvenuto nei mesi successivi molto meno. 

Nei kibbutz ai confini di Gaza, ormai distrutti, superato lo choc iniziale, ormai da tempo le persone sono alle prese con tutto quanto implica il ricostruire, il reinventarsi, il lento ritorno a casa e con il cupo retro-pensiero sul destino dei propri cari ancora nelle mani di Hamas.

I residenti dei kibbutz ai confini con il Libano, nei giorni immediatamente successivi, a seguito dei continui lanci di razzi da parte di Hezbollah, sono dovuti evacuare. Ora sono frammentati ovunque nel paese. Al momento tutti, sia al sud che al nord, sono, in misura diversa, ancora senza una prospettiva certa per il loro rientro a casa mentre cercano di contenere al massimo il danno che è stato inferto alle attività produttive.

Ma solo una narrazione fredda sulle difficoltà pratiche del presente non esaurisce la piena comprensione dell’impatto che il 7 ottobre ha avuto in quel luogo dove i sentimenti propri alla pre-politica si sovrappongono alla politica. E per capire meglio questo impatto decisamente emotivo bisogna guardare a prima di quella data.

Assieme a quelli del nord, i kibbutz a ridosso di Gaza hanno presidiato al meglio i valori originali dell'ideologia kibbutzista (ovvero collettivista), garantendo un’equa distribuzione dei profitti delle varie attività produttive e finanziarie ai residenti e creando un welfare di gran lunga più consistente di quello statale.

Ormai da alcuni decenni hanno promosso incessantemente, in parallelo all’impegno per lo sviluppo economico dei loro kibbutz, inclusione sociale (e lavorativa nelle loro attività) di arabi, beduini, drusi israeliani, attivando in più moltissimi progetti di assistenza dei palestinesi sia di Gaza che nei Territori. A questo impegno contro l’esclusione e per mitigare il disagio dei palestinesi si è parallelamente unito quello politico più generale contro l’Occupazione in Cisgiordania e contro i governi di destra degli ultimi anni.

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Fuori da Israele, e in Italia in particolare, sono arrivati in maniera sporadica e frammentaria i racconti di vita delle oltre 300 umanità recise e delle oltre 100 rapite dai kibbutz il 7 ottobre. Ognuna di queste persone era impegnata, in tante forme e modi, in un attivismo sociale e politico non semplice in un paese che negli anni ha politicamente e culturalmente intrapreso una deriva a destra.

Nessuno ha saputo, o voluto come nel caso di alcuni media israeliani, narrare di questo ammirevole impegno condiviso di vittime e ostaggi verso i palestinesi e i loro diritti. Anche tanti, tantissimi ragazzi che erano presenti al Nova Festival che sono stati uccisi o rapiti, tra cui alcuni che provenivano dai kibbutz, erano impegnati politicamente e socialmente per un Israele più giusto.

In pochissimi approfondimenti si è parlato di questo aspetto, anche in quei casi di altissima visibilità. Un esempio su tutti riguarda Hersh Goldberg-Polin, 23enne che sosteneva attivamente Peace Now e collaborava a un’iniziativa sportiva di integrazione e dialogo tra bambini israeliani e arabi.

Ma è leggendo le storie dei kibbutznik travolti dalla violenza di Hamas che si ritrovano militanti e rappresentanti di organizzazioni pacifiste e per i diritti che vanno da B’tselem a Yesh Din, da Peace Now a Women Wage Peace. E nelle parole e nell'impegno dei loro congiunti si comprende la forza del loro esempio.

Come nel caso di Yotam Kipnis che nell’orazione funebre di suo padre, ucciso a Kibbutz Be’eri assieme a sua madre, ha detto: “Non scrivete il nome di mio padre su una granata. Lui non l’avrebbe voluto. Non dite: Dio vendicherà il suo sangue. Dite: Che la sua memoria sia una benedizione”. Qualche mese dopo, come militante dell’organizzazione Standing Together, Kipnis era ai valichi di Gaza per contrastare il blocco degli aiuti umanitari ai palestinesi da parte dei coloni estremisti di destra. 

A distanza di un anno, i 3 kibbutz più colpiti dagli attacchi del 7 ottobre (Kfar Aza, Be'eri e Nir Oz) hanno promosso un boicottaggio delle commemorazioni di Stato, affidate alla ministra dei Trasporti Miri Regev. "Il governo dovrebbe concentrarsi sulle vite degli ostaggi a Gaza, e non sulle vite che ha abbandonato", si legge nel comunicato di Kibbutz Be'eri. Kibbutz Nir Oz ha inoltre chiesto al governo che il budget per la commemorazione di Stato venga usato per finanziare un organismo civile con rappresentanti di tutto il paese, senza nessun politico.

Hanno scelto il boicottaggio delle commemorazioni per protesta contro il governo, tra gli altri, anche Kibbutz Niri, Yad Mordechai e parte degli attivisti di Hostages and Missing Families Forum. Kibbutz Yad Mordechai, proprio perché uscito indenne dagli attacchi del 7 ottobre, è stato scelto simbolicamente per la cerimonia alternativa che commemorerà l'anniversario il 24 ottobre, data che nel calendario ebraico coincide con la festività di Simchat Torah che lo scorso anno cadeva esattamente il 7 ottobre.

La polizia israeliana sta reprimendo le proteste contro la guerra

Ma la storia forse più paradigmatica di questa narrazione mancata di straordinarie umanità è quella dei sei volontari di Derech Hachlama uccisi e dei due rapiti. Vivian Silver, Tammy Suchman, Eli Orgad, Hayim Katsman, Adi Dagan vennero uccisi il 7 ottobre, Chaim Peri, venne ucciso mentre era ostaggio di Hamas. Oded Lifshitz è ancora a Gaza mentre sua moglie è stata liberata.

Derech Hachlama è un’associazione no-profit, promossa da Yuval Roth di The Parents Circle-Families Forum. Si occupa del trasporto e di tutte le pratiche necessarie sia per l’ingresso in Israele che per il ricovero e cura, le cui spese sono sostenute dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Nonostante il conflitto a Gaza e il lutto, Derech Hachlama non ha mai interrotto il suo lavoro volontario continuando a far avere le migliori cure possibili ai malati palestinesi in Israele, seppure solo per quelli dei Territori. Eppure anche di questo nessuno ha parlato sui media occidentali nonostante la stampa israeliana ne avesse parlato.

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Tornando al presente, di fronte a episodi del genere è facilmente intuibile lo sgomento, il dolore, la frustrazione che ha colpito sia il mondo dei kibbutz che, più in generale, il campo della pace israeliano, come ha ben raccontato il quotidiano israeliano Haaretz qualche settimana dopo il 7 ottobre. 

Quel giorno Hamas non solo ha ucciso innocenti, devastato il lavoro di decenni, e trovato quel conflitto su scala regionale che desiderava, ma ha inferto una ferita che impiegherà anni a richiudersi proprio a quell’Israele che più era vicino alle ragioni dei palestinesi, incluso il diritto ad avere uno Stato. Lo ha fatto consapevolmente, vista l’attenta pianificazione e attuazione risalente al 2022 come è stato rivelato assieme alle responsabilità per il mancato allarme dell’intelligence israeliana.

I kibbutz al confine con il Libano stanno patendo di una situazione diversa, in parte sovrapponibile con i kibbutz del sud, per mano questa volta di Hezbollah. Come facilmente intuibile, la principale diversità ruota attorno alla ricostruzione delle varie attività produttive. Al sud la devastazione è stata ampia nelle attività produttive non legate all’agricoltura e all’allevamento, al nord esattamente l’inverso.

Per avere un veloce colpo d’occhio utile a capire quali siano le attuali problematiche: i 272 kibbutz con poco più dell’1% della popolazione esprime il 9% del PIL israeliano. Andando a restringere per compartimenti: il 40% del prodotto agricolo di Israele è pari a quasi 1,8 miliardi di euro l’anno [dati 2010] ma dal punto di vista puramente industriale nel 2021 il fatturato è stato di circa 12 miliardi di euro.

All’interno del fatturato industriale dei kibbutz troviamo prodotti ad alto valore aggiunto (come ad esempio: sistemi ottici, componentistica medicale, sistemi di irrigazione) nonché prodotti e servizi ad alto valore aggiunto tecnologico e, trasversalmente in tutti i settori, un’altissima presenza di start-up

In questi mesi, a sud oltre a quanto detto sulla devastazione degli impianti c’è stato un fermo delle attività delle start-up, che però lentamente stanno ritornando a un regime accettabile, e si sta pensando a un riposizionamento e un allargamento.

L’agricoltura (quasi il 20% del terreno agricolo di Israele si trova nell'area di confine di Gaza), grazie allo straordinario afflusso di volontari dalle aree urbane sia a fine 2023 che nei mesi successivi è riuscita a sopperire alla carenza di lavoratori, sperimentando nuove formule Keren Kayemet LeYisrael, l’organizzazione senza scopo di lucro ebraica che da 123 anni supporta lo sviluppo agricolo e le infrastrutture necessarie nonché la forestazione di Israele, ha inoltre stanziato pochi giorni fa quasi 38 milioni di euro per sostenere l’agricoltura al sud e al nord oltre a molto altro fatto negli scorsi mesi. 

Nonostante gli attacchi di Hezbollah, al nord le più importanti aziende industriali nei kibbutz sono riuscite a sostenere la produzione richiesta dai loro mercati, grazie a un mix di messa in sicurezza degli impianti e del coraggio dei lavoratori (kibbutznik, ma anche arabi e drusi israeliani). Ben diverso è stato l’impatto sull’agricoltura. A fine agosto alcune stime parlavano di oltre 250 mila ettari di foreste e campi coltivati andati in fiamme a fronte di 9.000 razzi di vario genere e tipo lanciati da Hezbollah nei 10 mesi precedenti oltre ad un numero imprecisato di allevamenti colpiti.

Anche in questo caso i kibbutznik e i moshavnik del nord, con una caparbietà e forza d’animo incredibili, hanno tentato di contenere i danni sia prima in fase di raccolto che poi di piantumazione. Gli esiti sono stati estremamente incerti, non essendo sempre possibile lavorare in sicurezza e non potendo fruire del supporto dei volontari come avvenuto al sud.

Il futuro prossimo venturo

“Resilienza” è un termine fin troppo abusato, al punto di risultare fastidioso, ma ben si adatta al mondo dei kibbutz.

Dal punto di vista economico, benché a oggi il governo di Netanyahu non abbia espresso alcun concreto piano di supporto alla ricostruzione, è ragionevole pensare che, nonostante tutte le difficoltà del caso, forti della solidità pregressa e della solidarietà, i kibbutz colpiti a sud e a nord torneranno alla normalità nel tempo.

Il vero punto sono le risorse umane, da molte prospettive. In generale, questa guerra distoglie una quantità enorme di israeliani che, aggiungendosi a quelli che stanno prestando il servizio di leva, vengono richiamati e che dal punto di vista generazionale costituiscono la forza lavoro più preziosa.

Per ragioni di segretezza mancano dati precisi. Per avere una stima di riferimento, a inizio conflitto a Gaza vennero richiamati 360 mila riservisti, oltre ai circa 170 mila soldati di leva. C’è stato un bassissimo ricambio, e molti riservisti sono al loro terzo richiamo in un anno. Ovvero, in misura variabile a seconda di età e specializzazione, tra circa i 6 e gli 8 mesi in totale. L’acuirsi del conflitto al nord sta ulteriormente coinvolgendo una generazione già esausta, mentre una proposta di legge vorrebbe estendere tutti i termini della coscrizione sottraendo ulteriore tempo applicabile in ambito civile.

Oltre al suo carico di orrore e distruzione, l'attuale guerra ha avuto l'effetto di bloccare ogni legame tra kibbutz e palestinesi di Gaza. Il flusso quotidiano di circa 20mila palestinesi che quotidianamente andava a lavorare nei kibbutz e nelle altre comunità di frontiera si è arrestato per effetto dell'assedio. Inoltre, rispetto a prima del 7 ottobre c'è un enorme clima di diffidenza. Nonostante sia stato appurato che la maggior parte di quei lavoratori palestinesi non ha in nessun modo collaborato con Hamas, c'è un numero indeterminato, seppur minimo, che lo ha fatto.

L’ulteriore criticità è il rientro in kibbutz. Al sud questo è già iniziato da tempo nei kibbutz che hanno subito meno danni, al nord è ancora tutto molto incerto. Uno dei dati più dolorosi riguarda gli sfollati dal nord, che sono perlopiù kibbutznik più anziani. Pochi giorni dopo l’inizio degli attacchi di Hezbollah, molti di loro, assieme alle famiglie, sono stati alloggiati nelle strutture alberghiere in zone turistiche, come ad esempio il Lago di Tiberiade, con un’alta capacità ricettiva e non troppo lontane. Nel tempo molti tra i più giovani e molte famiglie hanno trovato soluzioni alternative (nonché prossime ai kibbutz per cercare di raggiungere i luoghi di lavoro), mentre i più anziani sono tuttora lì.

Parlare del loro disagio, meriterebbe un lungo capitolo a parte. Sono persone che hanno letteralmente costruito dal nulla i kibbutz con sacrifici personali enormi, li hanno resi un modello comunitario virtuoso, hanno affrontato conflitti di ogni genere - atti di terrorismo compresi – sostenendo lutti e dovendo spesso ricostruire quanto fatto.

Dal 2006 per 18 anni hanno comunque fruito di stabilità e tranquillità visto che quel poco che è stato applicato della Risoluzione 1701 è stato ai confini con il Libano e poi sono precipitati nuovamente a sostenere le conseguenze di un conflitto così violento.

Al sud è stato diverso, dopo i giorni del violento attacco dei miliziani di Hamas nel tempo è tornata una relativa tranquillità. Molti residenti sono stati ospitati in complessi edilizi di nuova costruzione, oppure nei kibbutz vicini non colpiti da Hamas. In quelli danneggiati in misura minore, laddove è stato possibile, caparbiamente, anche i più anziani sono rimasti.

In generale, però, sia al nord che al sud si stima che ci sia circa un 10/15% di kibbutznik (prevalentemente quelli più giovani che hanno una famiglia con figli) che non vogliono rientrare, principalmente perché il governo di Netanyahu non offre garanzie stabili per la loro sicurezza al nord e per le prospettive di dura ricostruzione al sud. Resta da vedere se la situazione cambierà nei prossimi mesi, e come.

"Nonostante tutto"

In occasione del Capodanno ebraico, qualche giorno fa il Movimento dei Kibbutz ha diffuso sui social un messaggio di auguri per il nuovo anno ebraico.

Ricorderemo per sempre con dolore la guerra difficile e la distruzione.
Sentiremo la nostalgia ardente per gli assassinati, per i caduti in battaglia, per i rapiti.
Nonostante tutto, e anche così, ci rialzeremo dal nostro dolore, ciascuno a modo suo, ciascuno a suo tempo, spingeremo per la correzione, ci aggrapperemo alla speranza.
Continueremo a credere nell'uomo, nel suo spirito, nella forza dell'unità.
Auguriamo e preghiamo per un anno di rinascita, creazione e riparazione.Un anno di pace e crescita.
E che i rapiti tornino presto a casa.

In queste poche righe, nonostante il lutto, nonostante il rammarico e la tristezza, c’è quel guardare avanti, quella speranza, che hanno sempre sostenuto, e sosterranno, questa meravigliosa realtà.

Immagine in anteprima: frame video Guardian via YouTube

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