Perché le soluzioni al problema ‘fake news’ sono a loro volta un problema
18 min letturaLa “paura” delle fake news ha iniziato a manifestarsi principalmente a seguito dell’elezione del presidente degli Usa, Donald Trump, che sarebbe stata favorita, appunto, dalle notizie “false”, e in particolare da notizie false propagate dai russi sui social media.
Il pericolo evidenziato da molti commentatori sta nel fatto che i cittadini si informerebbero attraverso i social media, laddove in questi luoghi virtuali proliferano le fake news, decisamente più diffuse delle notizie vere. E sarebbero i giovani quelli più esposti alle conseguenze delle notizie false, avendo una capacità critica meno sviluppata.
Occorre rimarcare che, in effetti, un sondaggio della BBC evidenzia la paura dei cittadini nei confronti delle fake news (il 78% è preoccupato abbastanza o molto). Questo però non ci dice se tale paura sia effettiva oppure semplicemente indotta dalla campagna politico-mediatica contro il web “cattivo". In ogni caso la conseguenza è il proliferare di iniziative, legislative e non, nel tentativo di arginare questo fenomeno.
Leggi anche >> Elezioni americane e social network: cosa ci insegna la storia dei troll russi
Definire il fenomeno
Per una regolamentazione del fenomeno delle fake news la prima cosa che occorre è una corretta comprensione che deve partire cercando di definire il problema. Basandoci sulla categorizzazione di Harry Frankfurt (On bullshit), possiamo distinguere tre categorie.
La prima è il nonsense, la parodia, la satira, che a dispetto dei requisiti di esattezza persegue effetti performativi. Non è importante la correttezza del contenuto ma l'effetto che si vuole ottenere. Esempi di questo tipo sono i noti siti Lercio e Spinoza. Mentre noi ci sbellichiamo dalle risate il vicino, invece, rimane serio e scuote la testa incredulo. Si tratta, evidentemente, di notizie per le quali è rilevante l’interpretazione del soggetto che riceve la notizia.
Il secondo caso riguarda la pubblicità, o più esattamente quelle notizie (in senso generico) che esprimono una corrispondenza tra l’offerta e l’aspettativa di una prestazione (prodotto o servizio). Chiaramente la differenza di informazioni tra chi compra e chi vende determina spesso una sproporzione tra l’aspettativa e l’offerta che potrebbe rientrare nelle fake news.
L’ultima categoria è la propaganda, cioè l’attività di diffusione di idee e informazioni con lo specifico scopo di ottenere dal pubblico una determinata risposta, intesa come azione, ma non solo, a favore di coloro che la utilizzano. La propaganda, una forma di pubblicità spinta all'estremo, mira a modificare le opinioni politiche del pubblico. Ma anche la pubblicità mira a un'alterazione della percezione dei destinatari, imponendo, o comunque alimentando, dei bisogni nei cittadini.
Leggi anche >> Facile dire fake news. Guida alla disinformazione
Ovviamente la categorizzazione delle fake news non è facile, anche perché in molti casi le notizie possono rientrare all'interno di più categorie. Ad esempio, il discorso politico si può inscrivere sia nella seconda che nella terza categoria.
Appare evidente che l’inserimento di una notizia tra le fake news finisce per essere una questione spesso soggettiva. Anche i media tradizionali fanno talvolta uso di notizie o titoli “esagerati” per raccogliere l’attenzione della platea, o anche semplicemente per fare da sponda al governo. Basti ricordare l’ampia copertura data da giornali e televisioni alle famose “armi di distruzione di massa” possedute da Saddam Hussein (poi mai trovate in realtà). Quella campagna di stampa era strumentale all'invasione dell’Iraq. Ma, stranamente, oggi si parla di fake news online come se il fenomeno fosse esclusivo della rete Internet.
Il fenomeno delle fake news dipende direttamente dal modello pubblicitario dei nuovi mezzi di comunicazione. Non costituiscono un'eccezione bensì la conseguenza logica di un'economia di mercato che privilegia ricompense a breve termine.
I giornali si basano prevalentemente sugli introiti pubblicitari per sopravvivere e, in questa ottica, devono competere con le grandi piattaforme online che fanno man bassa dei profitti pubblicitari. Quindi, per “vendere” una notizia occorre che sia accattivante per conquistare più pubblico. Una notizia “falsa” o esagerata (o semplicemente un titolo esagerato) può essere più acchiappaclick. Il feed di Facebook tende a promuovere i contenuti più "appetibili", e non gli si potrebbe imporre di favorire, invece, contenuti meno preferiti dagli utenti (a meno di non violare il diritto costituzionalmente protetto alla libertà di impresa).
Per questo gli stessi giornali “abbelliscono” le notizie e i titoli, e allo stesso modo fanno molti siti web per cercare di incassare soldi diffondendo “notizie” di vario tipo, anche fake news. Ma ciò determina anche l’entrata in gioco di numerosi altri attori che sfruttano il nuovo modello economico delle notizie per ottenere profitti, riducendo così i margini per l’informazione corretta.
Che sia un problema sociale, oppure semplicemente una questione di sopravvivenza economica delle testate editoriali, il fenomeno delle fake news ha preso il sopravvenuto nei discorsi delle istituzioni, anche a livello europeo, con numerose iniziative tese alla loro regolamentazione. Una maggiore attenzione alla questione da parte di politici, giornalisti e docenti è sicuramente positiva, pur tuttavia l’approccio spesso seguito è quello di demonizzare a prescindere il mezzo (Internet e i social media: a questo proposito si consiglia l'articolo di OpenDemocracy "Democracy is dead: long live democracy!").
Le soluzioni proposte
Occorre premettere che gli ordinamenti giuridici già prevedono una serie di norme che si occupano di casi specifici di fake news. Ogni qualvolta una “notizia falsa” può determinare un danno a una o più persone, si può configurare un reato o un illecito:
- Diffamazione.
- Concorrenza sleale.
- Aggiotaggio, turbativa del mercato.
- Pubblicazione di notizie false, esagerate o tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico (356 c.p., è un reato di pericolo per cui non occorre l’effettiva turbativa dell’ordine pubblico ma comunque la notizia deve essere potenzialmente in grado di determinare tale turbativa).
- Responsabilità civile per atti che provocano un danno (2043 c.c.).
Ulteriormente possiamo menzionare, con riferimento alle norme specifiche per la stampa, la responsabilità del direttore del giornale rispetto alla mancata verifica delle fonti.
Anche partendo dalla considerazione che l’art. 21 della Costituzione non tuteli la consapevole diffusione del falso, è indubitabile che il falso in sé non è un reato, collocandosi in una zona grigia intermedia. L’ordinamento giuridico si occupa della repressione della “fake news”, ma l’attenzione statale è limitata alle sole ipotesi nelle quali vi è una ricaduta, almeno potenziale, sulla società della pubblicazione della notizia. Le fake news possono essere sanzionate, dunque, solo nel momento in cui vengono lesi valori sovra-individuali dell’intera società.
Il punto è che negli ordinamenti moderni trovano sempre meno spazio illeciti legati a valori etici e morali (perché il rispetto per le leggi e per lo Stato non può essere inculcato con la forza e la minaccia, ma deve essere diffuso tramite l'esempio dei rappresentati delle istituzioni), mentre di contro l’impressione, con riferimento alle fake news, è che si voglia tornare alla tutela di valori morali collettivi, con un pericoloso tuffo nel passato. Questo è un punto importante, che conviene non perdere mai di vista.
Premesso tutto ciò, per risolvere il “problema” delle fake news online sono stati proposti vari strumenti che possano garantire una corretta informazione in Rete:
- Filtraggio dei contenuti online ad opera delle piattaforme del web.
- Filtraggio dei contenuti online ad opera di operatori autonomi.
- Responsabilità delle piattaforme online.
- Bollino di affidabilità per i giornali.
- Blocco delle pubblicità per i siti che pubblicano fake news.
Sulla responsabilità delle piattaforme online leggi anche >> Facebook, la censura e i nostri diritti
Filtraggio dei contenuti online
In alcuni paesi sono già stati presentati disegni di legge in materia, che prevedono il controllo e l’eventuale rimozione delle fake news da parte delle piattaforme online. Ad esempio, in Germania una legge ad hoc prevede una multa fino a 50 milioni di euro per quelle piattaforme che non rimuovono i contenuti illeciti, con riferimento principalmente ai contenuti di hate speech ma anche alle fake news. È lo stesso strumento (notice and take down) che si utilizza per il copyright, con la differenza che la violazione del copyright è più semplice da stabilire rispetto a una falsa informazione.
Anche in Italia sono state presentate proposte di legge. Il disegno di legge Gambaro, ad esempio, è incentrato sulla collaborazione tra il potere politico e le piattaforme del web al fine di instaurare un costante monitoraggio e conseguente filtraggio delle fake news online. Il Ddl in questione venne proposto con l'intenzione di contrastare il diffondersi dei “movimenti populisti”, tradendo una finalità eminentemente politica.
Il problema principale delle proposte che invocano filtri per la Rete è che accomunano contenuti pedopornografici, hate speech, cyberbullismo e fake news in un unico calderone, assoggettando alla medesima sanzione (filtraggio, cioè rimozione) ipotesi di differente “gravità” e “pericolosità sociale”. Inoltre, il Ddl Gambaro, prevedendo una sanzione nei soli casi di pubblicazione di fake news attraverso piattaforme informatiche, va a introdurre un nuovo privilegio per l’attività professionale del giornalista, portando alla paradossale conseguenza che il giornalista, il quale normalmente dovrebbe essere, proprio in virtù del delicato ruolo da lui svolto, soggetto a maggiori responsabilità, si trovi invece a godere di un trattamento di favore.
Le soluzioni incentrate sul filtraggio rafforzano, però, la posizione dominante delle attuali piattaforme, con l’accentuazione degli effetti distorsivi sul mercato. Nulla potrebbe impedire che dietro lo schermo della lotta alle fake news o all’hate speech, le piattaforme online pongano in essere delle forme di controllo pervasive e poco trasparenti, favorendo i propri specifici interessi.
In questa prospettiva non possiamo dimenticare, infatti, che le piattaforme online sono praticamente tutte americane (quelle più importanti almeno) e qualsiasi accordo con i governi europei verrebbe, alla fine dei conti, superato da eventuali direttive provenienti da Oltreoceano. Gli Usa hanno dimostrato in più occasioni di considerare queste grandi aziende come la quinta colonna della loro politica estera, e proprio di recente gli americani hanno chiaramente espresso l'idea che queste piattaforme devono comportarsi in maniera patriottica, da veri americani. Questo ci fa temere che difficilmente rimuoverebbero fake news provenienti dagli Usa, ma solo contenuti russi o cinesi, oppure locali. Una regolamentazione generale, pensata per la tutela effettiva dei cittadini, potrebbe essere difficilmente ottenibile da queste piattaforme.
Inoltre le piattaforme online sono aziende private, mosse da interessi economici, che guidano le loro azioni e, per questo, è difficile credere nel concreto che possano adoperarsi per la tutela dei cittadini. Per chiarire, la recente apertura di Google e Facebook sulla regolamentazione delle fake news (e dell’hate speech) sostanzialmente dipende da due fattori: evitare una normativa nazionale che imponga specifici obblighi (ovviamente più stringenti di qualsiasi accordo o codice di condotta) e tutelare i loro profitti.
Nella primavera del 2017, infatti, alcuni inserzionisti (circa 250, tra i quali anche grandi nomi) hanno abbandonato YouTube perché non volevano che il loro marchio fosse accostato a contenuti controversi (hate speech e fake news), in un’ovvia ottica di tutela del brand. Google avrebbe perso fino a 750 milioni. Solo di recente, dopo aver visto la nuova politica in materia di hate speech e fake news, gli inserzionisti starebbero decidendo di tornare su YouTube .
Nuovi intermediari
È stato proposto anche il filtraggio dei contenuti da parte di autorità terze o operatori “indipendenti”. Questi, di fatto, andrebbero a filtrare i contenuti online oppure semplicemente ad apporre una sorta di “marchio” sulle notizie per indicare che sono “disputed”, cioè controverse. Di recente anche alcuni giornali italiani hanno annunciato di volersi assoggettare al controllo editoriale di autorità terze, che dovrebbero verificare l’affidabilità (trusted) dei loro contenuti.
Che un giornale si assoggetti, anche volontariamente, alla verifica e controllo di un terzo, che ne garantisca l’affidabilità delle notizie, pare più che altro testimoniare il fallimento del giornalismo, non più in grado di garantire la propria affidabilità. Oltretutto, secondo una ricerca dell'Università di Yale, utilizzare un bollino per certificare le notizie affidabili o meno sembra essere inefficace o addirittura controproducente.
Ma, in generale, questo approccio – cioè la delega a terzi della verifica delle notizie – non è altro che la sostituzione dei vecchi editori con nuovi intermediari della comunicazione. Se una volta c'erano gli editori (pochi) a fungere da intermediari delle notizie, e quindi assoggettabili a un eventuale controllo (censura) da parte delle autorità, adesso questi editori hanno palesemente perso il controllo delle informazioni in Rete, anche in conseguenza del crollo di fiducia che ha investito i media tradizionali. E se gli accordi con Facebook hanno inizialmente portato a qualche sollievo per i loro conti, sul lungo periodo sottrarrà ulteriore traffico a favore del social network (Facebook ha provato a separare le notizie dalle comunicazioni personali tra utenti, notando che le prime sono molto meno richieste rispetto alla seconde).
Questo è un enorme problema per gli Stati che, se storicamente hanno sempre ricoperto un ruolo importante nella regolamentazione dei media tradizionali (tv e giornali, soggetti a norme pubblicistiche), con riguardo alla Rete si ritrovano in una posizione marginale, laddove online sono i privati a farla da padrone, con una regolamentazione per lo più basata su policy. In realtà Internet è uno strumento molto potente sotto questo profilo, e comunque gli Stati possono comunque utilizzarlo a fini propagandistici, ma il problema fondamentale è che Internet è uno strumento “aperto” e non completamente controllabile (almeno nell'attuale struttura). Per cui anche attori terzi (autorità straniere, ma anche semplici cittadini) possono sfruttare la Rete per fini propagandistici, ponendosi in diretta concorrenza con i tradizionali editori e gli stessi governi.
La finalità di questa “soluzione” appare, in fin dei conti, quella di sostituire ai tradizionali intermediari (editori) dell'informazione, che ne hanno perso il controllo, nuovi intermediari più capaci di controllare, influenzare e filtrare l’informazione in Rete. Questi nuovi intermediari possono essere o terzi appositamente selezionati oppure, eventualmente, le stesse piattaforme online. Queste ultime, però, non sono facilmente controllabili perché troppo grandi (pensiamo a Google o Facebook, in grado di tenere testa perfettamente a uno Stato) e perché possono dare priorità alle esigenze dei loro azionisti in primis, che non necessariamente hanno interesse ad assecondare i desiderata dei governi.
A leggere con attenzione la Risoluzione del Parlamento sulla comunicazione strategica dell'UE per contrastare la propaganda nei suoi confronti da parte di terzi, le proposte nazionali non differiscono affatto da quelle presentate in sede comunitaria. Il documento in questione sostanzialmente invita gli Stati a vigilare sulla disinformazione proveniente da altri Stati e a collaborare con la NATO per contrastare queste forme propagandistiche. La risoluzione vede la propaganda russa alla stregua di un'attività terroristica vera e propria (paragonata all’ISIS) e, per contrastarla, legittima e auspica che gli Stati europei (e gli Usa) pongano in essere gli stessi comportamenti (propaganda) che vengono criticati se posti in essere dal governo russo.
Si tratta di un vero e proprio tuffo in un passato autoritario, che credevamo di aver seppellito da tempo, e un invito alla militarizzazione dell'informazione online.
Il libero mercato delle idee
Quando si discute di responsabilità delle piattaforme del web in merito ai contenuti diffusi, la mente corre subito alla definizione di free marketplace of ideas. Il richiamo al mercato libero delle idee vede il contrasto alla fake news (ma non solo) demandato alle armi della critica e della discussione e non alle leggi. L'affermazione o la sconfitta di un'idea, di una notizia, dovrebbe, quindi, dipendere dal bilanciamento ottenuto dalle leggi di mercato che sarebbero in grado di far emergere le idee buone a dispetto di quelle cattive.
La retorica del free marketplace of ideas è soggetta a numerose critiche. Innanzitutto, l’identificazione del cittadino con il consumatore vede le idee mercificate come se fossero un bene di consumo, un’automobile, ad esempio. In secondo luogo, le scelte del consumatore, anche se sbagliate, finiscono per danneggiare se stesso, mentre le scelte del cittadino hanno un’incidenza sull'intera società, e non solo su chi le opera. Ma il problema principale dipende non solo dalla quantità di informazioni a disposizione del consumatore-cittadino quando deve operare una scelta, ma anche dalla diversità delle stesse. Cioè, le informazioni sono talmente tante che il cittadino fatica a leggerle tutte, per cui necessariamente si concentra solo su alcune, tenendo a privilegiare quelle che sono più affini alle sue idee e al suo modo di essere.
Questa critica sembrerebbe assumere che il problema sia la quantità di informazioni eccessive in rete, come per dire che occorre limitare le informazioni a disposizione delle persone, in un’ottica paternalistica e moraleggiante. Lo Stato, o chi per lui (piattaforme online o operatori terzi), dovrebbe farsi carico di limitare le informazioni in modo che tutti abbiano il tempo materiale di leggerle. Viene da chiedersi, però, come convincere a leggere cose che i cittadini non vogliono leggere, pur avendone il tempo.
Ma il free marketplace of ideas è una metafora piuttosto vecchia. Oggi lo spazio è occupato completamente o quasi dalle piattaforme online, per cui è difficile parlare di un mercato davvero free. La concentrazione eccessiva nelle mani di pochi intermediari determinerebbe, così, la necessità di una regolamentazione statale del mercato delle idee. Ma anche qui la critica è semplice. Se il problema nasce dall'eccessivo potere delle piattaforme, una regolamentazione che imponga (o deleghi tramite codici di condotta) alle piattaforme del web il controllo delle informazioni online di fatto finirebbe con il concedere ancora maggior potere a quelle stesse piattaforme, alimentando il problema che intende risolvere.
Sembra evidente, quindi, che alcune posizioni derivano da una scarsa comprensione del problema, delle dinamiche del web, o semplicemente da interessi specifici tesi a strumentalizzare il dibattito in corso. È vero che l’informazione digitale è probabilmente la cosa più contagiosa del pianeta, ma non è attraverso la soppressione di opinioni contrastanti con il comune sentire che si risolvono problemi che nascono in altre sedi e che trovano nella rete solo un mezzo di diffusione e dialogo. La Rete è lo specchio della società. Semmai uno dei primi passi potrebbe essere studiare e comprendere perché e come le persone cercano, consumano e danno un senso alle informazioni sui social (si veda studio di Nielsen e Graves).
Leggi anche >> Se le democrazie sono in pericolo non è certo colpa dei russi o dei social network
La retorica è la medesima da anni, Internet è pericoloso e va controllato e determinati contenuti vanno cancellati. Si è partito dalle violazioni del copyright, poi i contenuti pornografici, e man mano si vogliono estendere le rimozioni al cyberbullismo, l’hate speech, le fake news, accomunando – come detto in precedenza – contenuti completamente diversi tra loro sotto il medesimo ombrello.
Il cittadino è pericoloso e va educato
Gli ordinamenti moderni si incentrano più sulla prevenzione del rischio che sul sanzionamento delle lesioni dei beni giuridici. In quest'ottica, ad esempio, si può inscrivere la normativa in materia di “data protection”. Il “dato personale”, in fondo, non è altro che un bene giuridico di secondo livello creato per anticipare la tutela rispetto a una lesione dei diritti fondamentali del cittadino.
Un percorso di questo tipo è legittimo se non addirittura necessario in caso di sistemi complessi come appunto quello sulla data protection, ma se portato alle estreme conseguenze potrebbe anche aprire la la strada a un atteggiamento paternalistico o militante dello Stato, che può portare a risultati aberranti. Come, ad esempio, il recente annuncio del segretario di Stato britannico, che ha manifestato l’intenzione di introdurre sanzioni nei confronti di coloro che guardano (più di una volta) contenuti terroristici online. In questo caso non solo si tenta di anticipare un eventuale attentato, ma addirittura la stessa radicalizzazione dell’attentatore (che fin quando non si estrinseca con attività concrete rimane nella sfera personale dell'individuo), con la politica criminale che sfonda letteralmente i confini del suo campo di azione per invadere altri settori non di sua competenza. Il rischio, infatti, è di trasformare le politiche di prevenzione in propaganda e indottrinamento dei cittadini.
L’intera discussione sulle fake news, ormai pervasiva da qualche tempo a questa parte, si inscrive indubitabilmente in tale prospettiva, cioè nell’ottica non solo della prevenzione del rischio, ma anche in quella dell’indottrinamento dei cittadini, sconfinando nell’idea che tra i compiti dello Stato vi sia anche quello di “formare” il cittadino. Il cittadino è visto come un soggetto fondamentalmente "a rischio" in quanto permeabile alla propaganda del “nemico”, e quindi non deve essere esposto a contenuti che potrebbero portarlo a mettere in discussione le verità precostituite.
Per questo, da anni le proposte di legge che riguardano Internet tendono a ricreare una struttura da calare sulla rete al fine di introdurre un accesso selettivo, sia per i contenuti che per gli stessi utenti. Insomma, Internet come una grande televisione, controllata da pochi, grandi editori.
Una ristrutturazione di Internet in tal senso è certamente complessa, ma non impossibile. In alcuni paesi ci si è già incamminati, ad esempio in Cina dove Internet non è altro che una sotto-rete dell'Internet mondiale, con pochi accessi strettamente controllati in ingresso e in uscita.
La realtà è che la “Primavera Araba” ha reso evidente come una Rete aperta sia poco compatibile con le esigenze di segretezza e di controllo delle informazioni sulle quali si basano tutti i governi, compresi quelli occidentali, che da un lato condannano la repressione della libertà di manifestazione del pensiero negli altri Stati, ma poi consentono alle proprie aziende di creare gli strumenti digitali per un controllo massiccio delle informazioni in Rete. Noi che viviamo in paesi “democratici” ci ritenevamo al sicuro pensando che quegli strumenti fossero venduti solo ai paesi autoritari, ma dopo PRISM e lo scandalo dell’NSA, anche questa certezza è stata spazzata via, lasciando sul campo solo l'ipocrisia dei governi.
Ipocrisia che si svela proprio nel momento in cui i governi cercano accordi con le multinazionali del web, accusate da un lato di aver accumulato troppo potere e di non essere più gestibili, ma blandite dall'altro con accordi, codici di condotta, protocolli di intesa che non fanno altro che cedere loro ancora più potere. E questo perché un governo democraticamente eletto, e che deve rispondere delle proprie politiche agli elettori, probabilmente non può permettersi di porre in atto un monitoraggio capillare delle Rete Internet al fine di censurare i contenuti dissidenti. Le leggi glielo vieterebbero e ne risentirebbe a livello di consenso elettorale. Questo tipo di attività viene così delegata alle multinazionali del web, che potrebbero trincerarsi dietro le policy aziendali, i termini di servizio e improbabili bug del software che gestisce il sistema. Il tutto in cambio del via libera dei governi agli affari redditizi con i dati dei cittadini.
Cosa si può fare
In conclusione, fermo restando che il problema non sembra essere quello delle fake news, quanto piuttosto un problema della società in rapporto all'informazione nel suo complesso, occorre innanzitutto sgomberare il campo dalle soluzioni strumentali proposte, e partire dalla considerazione che lo strumento tecnologico (il web) è in continua evoluzione ed è difficile anche semplicemente ipotizzare come sarà tra una decina d’anni, e quale impatto effettivamente ha sulle persone.
Anche se già oggi il web sembra portare numerosi pregi, essendo uno strumento utilizzabile (ed utilizzato) per alimentare il discorso pubblico, abbattendo il costo della partecipazione politica dei cittadini consentendo anche ai piccoli gesti (una petizione, ma anche un semplice tweet, una denuncia di corruzione, o di inefficienza della macchina pubblica) di avere un peso nell'opinione pubblica.
In merito al dibattito sulle fake news che avrebbero condizionato, fino a “dirottarle”, le elezioni negli Usa, sembra più che altro – per dirla con una metafora calcistica – che l’altra parte, dopo aver subito un gol all'ultimo secondo, invece di accettare il risultato chieda di annullare la partita invocando inesistenti falli. Forse, come suggeriva Fabio Chiusi (vedi Seminario Nexa: illuminare le dark ads), sarebbe meglio tornare a fare politica.
Comunque, dal dibattito in corso emergono due possibili direzioni valide, tra l'altro sostenute dal relatore dell'ONU sulla libertà di espressione, dall'OSCE e dal Gruppo Articolo 19 (vedi la Dichiarazione comune sulla libertà di espressione e "false notizie", disinformazione e propaganda).
Any prohibitions on the dissemination of information based on vague and ambiguous ideas, including “false” or “fake news” or “non-objective information”, are incompatible with international standards for restrictions on freedom of expression.
Qualsiasi divieto di diffusione di informazioni basate su idee vaghe e ambigue, comprese "false" o "notizie false" o "informazioni non obiettive", è incompatibile con gli standard internazionali per le restrizioni alla libertà di espressione.
Il primo punto è alimentare il pluralismo in Rete. In tale prospettiva è palese che delegare ulteriori poteri alle piattaforme del web in realtà non fa che acutizzare il problema, per cui è più plausibile che si debba andare nella direzione opposta, imponendo maggiore neutralità alle piattaforme in relazione ai contenuti diffusi (cioè rimuovere solo quello che è pericoloso o costituisce reato). Le piattaforme del web sono aziende private che svolgono un servizio pubblico, e quindi assoggettabili a una regolamentazione (stile public utility). In tal modo si potrebbe diminuire l’effetto “bolla”descritto da Parisier, moltiplicando le fonti di informazione alla quali i cittadini possono accedere.
Ciò significherebbe imporre nuovi e più penetranti obblighi di trasparenza alle multinazionali del web, in relazione (non agli algoritmi, che sono pacificamente segreti commerciali, protetti in base alla normativa attuale a alla Direttiva Trade Secret) ai criteri di valutazione e all’impatto delle loro policy sui diritti umani.
Tale approccio non porterebbe a grandi risultati se non strettamente collegato con una nuova alfabetizzazione delle persone ai media e alle notizie (come suggerito da uno studio di PEN America), per migliorare l’approccio dei cittadini non tanto alle fake news, ma in genere ai fenomeni di propaganda e disinformazione, da chiunque provengano (siano essi russi, cinesi, americani oppure il nostro stesso governo).
Leggi anche >> Contro la disinformazione l’unica vera arma è il pensiero critico
Mai come oggi la libertà di parola appare totale e incondizionata. Chiunque può aprire un blog o esprimere il proprio pensiero su Facebook. Eppure, l'esercizio della libertà di parola è facoltà del tutto sterile, data l’assoluta impermeabilità della politica alle idee che vengono dai cittadini. Oggi lo spazio pubblico ha il solo scopo di esporre “uomini che ce l’hanno fatta” come esempi da seguire per il cittadino comune, senza proporre nessuna soluzione per i suoi problemi. Nelle democrazie moderne, infatti, l’unica “parola” che conta è quella degli “esperti”, che in definitiva non sono altro che coloro che vedono le cose come stanno e insegnano a conviverci nel modo meno rischioso possibile, in un’incessante perpetuazione dello status quo.
In questo modo è progressivamente venuto meno proprio il significato di democrazia, intesa come società capace di mettersi in discussione aprendo alla creazione di nuovi significati (Cornelius Castoriadis).
A mio parere l’idea migliore è quella di alimentare il pluralismo (promoting media diversity, which is a key means of addressing disinformation and propaganda, vedi la Dichiarazione sopra riportata) piuttosto che rimuovere contenuti, perché la rimozione implica sempre che ci sarà qualcuno che decide per noi cosa dobbiamo leggere, e quindi che plasma la nostra visione del mondo. Invece, lasciando le notizie controverse online, affiancate da contenuti in grado di confutarle, si innesca una discussione pubblica in grado di portare a una crescita sociale che ci rende più critici rispetto a ciò che leggiamo, più esigenti della prova e della provenienza delle notizie, più autosufficienti nel pensiero. La rimozione, invece, è palesemente indice della paura delle democrazie occidentali verso argomentazioni che mettono in discussione le idee comuni.
Se uno Stato non ha fiducia in sé e nei suoi valori, come può chiedere a un cittadino di avere fiducia in lui?