La Commissione europea costretta a rivelare uno studio sulla pirateria tenuto nascosto
5 min letturaNel gennaio del 2014 la Commissione europea ha incaricato la società olandese di consulenza Ecorys di condurre uno studio sull'impatto economico della pirateria, con un contratto di 360mila euro. Il lavoro della società olandese si conclude nel maggio del 2015 e, nonostante sia stato regolarmente consegnato, da allora non è mai stato pubblicato né menzionato dalla Commissione europea. Perché?
Il 27 luglio 2017 la parlamentare europea Julia Reda apprende dell’esistenza della gara indetta per commissionare lo studio, che è del 2013. In base alla legge dell’Unione europea sulla libertà di informazione presenta una richiesta di accesso agli atti (qui lo scambio di comunicazioni).
La Commissione europea risponde evasivamente la prima volta, sostenendo che mancava l’indirizzo postale per cui non era possibile registrare la richiesta, poi non rispetta il termine di 15 giorni previsto per rispondere. Solo il 20 settembre la parlamentare europea viene in possesso della documentazione (ndr vedi pdf linkato nell'immagine qui sotto).
L’obiettivo dello studio, intitolato Estimating displacement rates of copyrighted content in the EU, è di analizzare come la pirateria influenza le vendite di contenuti protetti da copyright in quattro diverse industrie: musica, film, libri e giochi. L’indagine è stata condotta tra settembre e ottobre del 2013, con un campione rappresentativo di circa 30mila persone di 6 Stati dell’Unione (Germania, Francia, Polonia, Spagna, Svezia e Regno Unito).
La politica dell'UE in tema di pirateria
A questo punto occorre premettere che l’attuale politica della Commissione europea in tema di pirateria si fonda sul presupposto che i titolari dei diritti non riescono a monetizzare adeguatamente i loro prodotti, questo perché vi è, nell’ecosistema digitale, un'ingiusta distribuzione dei profitti nella catena di diffusione delle opere online.
L'industria del copyright evidenzia che esistono due tipi di piattaforme, in relazione al problema che qui intessa, cioè quelle il cui business si incentra sugli abbonamenti (es. Spotify, Netflix), e che quindi negoziano accordi di licenza con i titolari dei diritti operando nella legalità, e quelle invece che sono finanziate dalla pubblicità (advertising funded) e contengono per lo più contenuti generati dagli utenti (es. Youtube). Tra queste ultime piattaforme solo alcune (appunto Youtube) negoziano accordi di licenza coi titolari dei diritti, mentre la maggioranza opera al di fuori di tali accordi. E comunque, anche qualora le piattaforme ad-funded negozino accordi, non sono accordi di licenza bensì accordi di distribuzione degli utili derivanti dalla pubblicità (es. Youtube gira parte dei profitti derivanti dalla pubblicità inserita su un contenuto non autorizzato dal titolare dei diritti).
La conclusione è che le piattaforme ad-fundend non operano nella legalità e tale situazione determina un’ingiusta distribuzione dei profitti (value gap) che danneggia i titolari dei diritti.
Per risolvere questo “problema” la Commissione europea ha proposto una riforma della direttiva copyright, il cui articolo 13 introduce specifici oneri legali per le piattaforme online che pubblicano contenuti generati dagli utenti (user generated content), e in particolare l’obbligo di utilizzare appositi strumenti di filtraggio dei contenuti e di operare con l’accordo dei titolari dei diritti al fine di rimuovere e di impedire il caricamento di contenuti in violazione dei diritti. Si tratta di una proposta che si inquadra nell'ambito dell’iniziativa contro la pirateria presentata dalla Commissione europea nel 2014, nella quale si parlava espressamente di rivedere la normativa sulla responsabilità delle piattaforme online, imponendo loro un obbligo di monitoraggio sui contenuti illeciti.
Qui spiegavamo la proposta iniziale >> Europa e copyright: indietro tutta
In questa prospettiva, il dibattito sulla riforma della direttiva copyright si è incentrato su tre rapporti (uno appunto di Julia Reda), tra i quali è stato preferito dalla Commissione l’approccio del rapporto Svoboda che poneva l'accento sulla necessità di reprimere le violazioni del copyright tramite accordi fra le aziende e misure di soft law, privilegiando la cooperazione aziendale al fine di bloccare il flusso dei contenuti contraffatti o piratati. Questo rapporto aderisce all'idea che la tutela del copyright debba essere sostanzialmente privatizzata, auspicando un'aziendalizzazione delle libertà fondamentali dei cittadini.
La strategia europea appare, quindi, privilegiare l’approccio supply-side, cioè di inibizione all’accesso dei contenuti illeciti rimuovendo e prevenendo l’accesso a tali contenuti, demandando alle stesse aziende la regolamentazione della gestione dei contenuti online. Questo tipo di approccio implica necessariamente una visione dell’ecosistema Internet estremamente riduttiva, quasi come fosse un canale di distribuzione unidirezionale (industria→distributori→utenti) senza considerare invece la peculiarità delle nuove tecnologie che è data dalla multidirezionalità, per non parlare del fatto che consente agli stessi consumatori di farsi a loro volta produttori di contenuti.
Il presupposto di questo discorso, e quindi la base della politica della Commissione europea, è che la pirateria danneggi i titolari dei diritti, anzi che abbia conseguenze devastanti sull'intera industria con enormi perdite economiche e anche di posti di lavoro. E la Commissione persevera, da anni, a studiare e proporre delle regolamentazioni repressive e censorie, di sorveglianza e monitoraggio, in nome della tutela delle arti e dei diritti d'autore. Se le aziende perdono soldi non investono, se non investono si perdono posti di lavoro, non si ha innovazione, l'intera economia crolla, ed è tutta colpa della pirateria!
Ecco che allora diventa rilevante lo studio di Ecorys, leggendolo forse si può anche comprendere perché lo studio, ultimato nel 2015, a tutt'oggi non è mai stato pubblicato.
Lo studio di Ecorys
I risultati della ricerca sembrano contraddire le premesse della politica della Commissione europea. Infatti, secondo lo studio non ci sono prove concrete di un impatto negativo della pirateria sulle vendite dei contenuti protetti da copyright, a eccezione delle opere cinematografiche più importanti (i blockbuster) appena rilasciate. Per la cinematografia si rileva, infatti, una perdita del volume di vendite in conseguenza della pirateria (complessivamente il 4,4%), cosa che, però, potrebbe essere dovuta alla politica dei prezzi più elevata per i film rispetto agli altri prodotti. Secondo lo studio esisterebbe addirittura una leggera tendenza positiva per l’industria dei videogiochi.
In general, the results do not show robust statistical evidence of displacement of sales by online copyright infringements. That does not necessarily mean that piracy has no effect but only that the statistical analysis does not prove with sufficient reliability that there is an effect.
I risultati dello studio – si legge nel rapporto – non mostrano solide evidenze statistiche sull'esistenza di un impatto economico negativo della pirateria sulle vendite delle opere protette. Ciò non vuol dire che la pirateria non abbia alcun effetto, ma solo che l’analisi dei dati non permette di ricavare alcuna correlazione.
È particolarmente interessante che gli aspetti positivi, o comunque non negativi, evidenziati dallo studio non sono stati né pubblicati né ripresi da altre fonti, mentre (come evidenzia EDRi, il gruppo che si batte per i diritti digitali) solo il risultato negativo riguardate l’industria cinematografica ha trovato una diffusione tramite una pubblicazione di Benedikt Hertz e Kamil Kiljański, entrambi membri del team di economia della Commissione europea.
In conclusione, solo la parte che è coerente con la politica anti-pirateria della Commissione europea, politica che, ricordiamolo, è sostanzialmente analoga alle idee prospettate da anni dall'industria del copyright, è stata diffusa, mentre il resto dello studio, che non si accorda con tale politica, dal 2015 ad oggi è rimasto inedito, chiuso in un cassetto. Fino alla richiesta della parlamentare Julia Reda alla Commissione europea.
È significativa la riluttanza della Commissione a divulgare i risultati completi dello studio e si spera che tale vicenda abbia un qualche effetto sul dibattito ancora in corso sulla riforma della direttiva copyright (qui per leggere l’attuale situazione del dibattito). Occorre anche rimarcare che il rapporto offre conclusioni simili a quella di analoghi studi:
- Studio sulla pirateria commissionato da Spotify
- Studio di Ipsos sulla pirateria
- Studio sulla pirateria della Northeastern University di Boston
- Studio sulla pirateria digitale di American Assembly e Columbia University